Quella italiana è la prima cucina al mondo a ottenere il riconoscimento di Patrimonio immateriale Unesco. “La Cucina Italiana, tra sostenibilità e diversità bio-culturale” era il titolo esatto della candidatura che chiedeva il riconoscimento non di un prodotto o di una preparazione, ma del rito collettivo che fa del cucinare un elemento identitario. Non una cucina nazionale, in senso unitario, codificato, ma frutto di continue ibridazioni culturali e sociali, una cucina della diversità da un lato e degli affetti dall’altro. Casa Artusi, di cui il professore Andrea Segrè è il nuovo presidente, ha lavorato e sostenuto la candidatura fin dall’inizio.
Segrè e l’orgoglio di Casa Artusi: “La cucina italiana è un sistema culturale”
Come avete vissuto l’attesa?
«Casa Artusi è stata uno dei motori culturali della candidatura grazie all’impegno di Laila Tentoni, già presidente, e di Massimo Montanari, coordinatore del nostro Comitato scientifico. L’attesa del verdetto è stata intensa ma vissuta con fiducia: sapevamo di aver costruito un dossier solido, capace di raccontare l’Italia nella sua autenticità. Veder riconosciuto questo lavoro è una grande soddisfazione per Casa Artusi e per tutta la Romagna».
Una proposta complessa, anche un po’ intellettuale, è stato facile farla comprendere?
«Non è stato immediato, perché la cucina italiana non si lascia racchiudere in una definizione semplice. Non parliamo di un piatto o di una tecnica, ma di un sistema culturale, fatto di relazioni, tradizioni familiari, diversità territoriali e pratiche quotidiane. È una cucina che nasce dall’incontro, talvolta dallo scontro, fra storie, popoli, classi sociali. La complessità della candidatura è però anche la sua forza: ha mostrato che cucinare, in Italia, è un atto identitario prima che gastronomico. E quando si è capito che l’obiettivo non era “fissare” una cucina nazionale, ma riconoscere un rito collettivo che ci unisce nella diversità, il messaggio è diventato chiaro. L’Unesco ci ha riconosciuti proprio per la nostra pluralità».
Il dibattito è sempre stato acceso: ora la cucina italiana ha una definizione che va oltre la regionalità. Perché finora non è stato facile definirla?
«Perché la cucina italiana è, da sempre, una e molteplice. Tra Ottocento e Novecento ha prevalso la lettura regionale, legittima ma parziale: ogni regione, ogni città, spesso ogni famiglia, custodisce tradizioni fortissime. L’errore è stato pensare che queste differenze impedissero di parlare di una cucina italiana. La candidatura ha dimostrato il contrario: ciò che ci unisce non è l’uniformità delle ricette, ma la condivisione del modo di cucinare, del rapporto con i territori, della convivialità. L’Italia non ha una tradizione monolitica, ma un modello culturale che, pur radicato localmente, si rispecchia su tutto il Paese. È una cucina che non somma differenze: le mette in dialogo».
L’Italia ha già altri patrimoni legati al cibo: l’arte dei pizzaioli napoletani, la dieta mediterranea. Cosa aggiunge questo riconoscimento?
«Aggiunge un fattore decisivo: la dimensione quotidiana e domestica della cucina. Arte della pizza e Dieta mediterranea sono icone importanti, ma parziali. La candidatura della cucina italiana, invece, riconosce l’intero paesaggio culturale e sociale del nostro modo di cucinare: i rituali di casa, il valore della condivisione, la diversità bioculturale, la sostenibilità. È il riconoscimento di un’intera civiltà del cibo, non di un singolo elemento».
Massimo Montanari e Pier Luigi Petrillo nel volume “Tutti a tavola”, che racconta le ragioni della candidatura e i contenuti del dossier che l’ha sostenuta, affermano che la cucina italiana non è una somma, ma una moltiplicazione. Secondo lei questo processo continua, o si sta esaurendo visto che sempre meno italiani cucinano in casa?
«Il processo continua, ma è messo alla prova. La cucina italiana è storicamente un sistema in evoluzione, capace di integrare innovazioni e contaminazioni. È vero, però, che si cucina meno in casa, e questo rischia di indebolire quella trasmissione di saperi che ha reso forte la nostra cucina. Per questo dobbiamo investire nell’educazione alimentare, nella formazione, nelle scuole di cucina, nella cultura del fare. La cucina italiana evolve quando si cucina: senza pratica domestica, la moltiplicazione rischia di rallentare. Casa Artusi esiste proprio per evitare che accada».
Quale sarà l’impatto economico del riconoscimento?
«Gli studi dimostrano che i riconoscimenti Unesco generano benefici economici significativi: più turismo culturale, più visibilità internazionale, più opportunità per imprese e filiere. Ciò che conta è la qualità dell’indotto: un turismo più consapevole, legato all’esperienza e non al consumo veloce. Per l’Italia, e la Romagna in particolare, questo può tradursi in nuovi itinerari culturali, valorizzazione dei prodotti locali, crescita di eventi gastronomici, investimenti in formazione e ospitalità. L’impatto ci sarà, dovremo governarlo con responsabilità».
Il riconoscimento Unesco preserverà il cibo italiano dall’italian sounding?
«Non lo eliminerà, ma lo contrasterà con più forza. L’italian sounding prospera dove manca chiarezza culturale. Un patrimonio Unesco, invece, definisce con autorevolezza cosa sia davvero la cucina italiana: pratiche, saperi, tradizioni, relazione con il territorio. Non è un marchio commerciale, ma una cornice culturale fortissima che dà agli operatori seri strumenti per distinguersi e ai consumatori strumenti per scegliere. Renderà il Made in Italy autentico più riconoscibile, più tutelabile e più competitivo. E proprio per questo Fondazione Casa Artusi ha istituito l’Osservatorio internazionale sulla cucina e il buongusto italiano, grazie a un primo finanziamento della Camera di Commercio della Romagna. L’Osservatorio sarà una piattaforma di ricerca e confronto aperta a istituzioni, imprese, scuole, comunità: una risorsa per chiunque voglia comprendere e valorizzare il patrimonio culinario italiano».
Ora come festeggerete a Casa Artusi?
«Con la consegna, domenica, del Premio Artusi 2025 a Giannola Nonino e con la nascita di questo Osservatorio».