Forlì, smart working negato dopo il grave infortunio sul lavoro

Dopo un grave infortunio sul lavoro alla Marcegaglia di Forlì che lo ha reso invalido del 40 per cento nella gamba destra, ha sviluppato una sorta di rigetto per il luogo dove svolge la sua attività, patologia certificato dai medici, tanto da dover chiedere di lavorare in smart working, possibilità negata dall’azienda. Per questo giovedì verrà discusso il ricorso presentato al Tribunale di Mantova, dove la società ha la sua sede legale, dall’avvocato Giuseppe Mazzini che tutela l’uomo. Una lunga e amara storia non solo lavorativa, ma anche umana quella di Gianluca Grandini, 53enne di Bertinoro, dipendente dello stabilimento forlivese di via Mattei. «La notte del 4 giugno 2004 – racconta Grandini – ho avuto un grave infortunio: si è sganciato un rotolo di lamiera molto grande e pesante che mi è caduto sulla gamba destra, provocandomi un trauma da schiacciamento e ho praticamente perso l’uso della gamba. All’epoca avevo 33 anni. Ho fatto un anno di infortunio a casa, sono rientrato al lavoro nel maggio-giugno 2005: sono stato ricollocato all’ufficio Certificazioni e qualità come impiegato. Dall’infortunio prendo molte medicine per il dolore e ho un neurostimolatore». Immediatamente oltre al trauma da schiacciamento a Grandini viene diagnosticata una sindrome ansiosa depressiva con disturbo dell’adattamento certificata dall’Inail e dall’Ausl. «Per me è stato un cambiamento radicale della vita: quando è successo l’incidente mia figlia era nata da 14 giorni, non l’ho mai potuta prendere in braccio». Con il passare degli anni le cose non sono migliorate, anzi negli ultimi mesi sono precipitate. «Questa sindrome ansiosa depressiva che Gianluca ha sviluppato – dice l’avvocato Mazzini – ha portato a una insofferenza completa e totale verso l’ambiente di lavoro perchè gli fa rivivere il suo cambiamento radicale di vita e il trauma dell’infortunio con la sua devastazione di uomo, genitore e marito. Non riesce a tollerare più il luogo di lavoro che vive come una spina irritativa della sua condizione esistenziale. Questo è quanto ha certificato un perito psichiatra. Ha chiesto nei mesi scorsi lo smart working perchè non ce la fa a stare alla Marcegaglia. Non è l’ambiente lavorativo che è insalubre, lo è per lui. Gli è stata certificata una inidoneità all’ambiente lavorativo. Lo smart working serve per impedire un peggioramento delle sue condizioni di salute. Abbiamo chiesto l’intervento dei sindacati ma non abbiamo ottenuto nulla. Siamo arrivati quindi a presentare un ricorso urgente al tribunale del lavoro, allegando tutte le certificazioni mediche, anche del medico della Marcegaglia che è arrivato alla stessa conclusione, cioè la necessità dello smart working. L’articolo 42 della legge 81 del 2008 dice che il datore di lavoro deve attuare le indicazioni del medico competente. Inoltre il Codice civile prevede all’articolo 2.087, come misura protettiva del lavoratore che il datore di lavoro debba preservarne l’integrità psicofisica e morale».
«Sono rientrato al lavoro il 2 settembre – riprende Grandini – ma il problema si è ripresentato e ora sono tornato in malattia, anche se ormai ho finito i giorni a disposizione. Cosa provo quando arrivo sul posto di lavoro? Sono pieno emotivamente e con un carico di stress enorme, ho sudorazione e tachicardia. Ho dovuto aumentare la dose dei medicinali psicofarmaci».
La strada del ricorso è tracciata dall’avvocato Mazzini: «Lo strumento giuridico è l’obbligo del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli con oneri finanziari proporzionati in tutti i casi in cui sia necessario salvaguardare il posto di lavoro o rendere salubre la postazione di lavoro a un dipendente che è ritenuto inidoneo per quell’ambiente, ovviamente deve esserci un certificato medico. Vuol dire che il datore di lavoro è tenuto a riorganizzare l’attività produttiva: lo dicono una disciplina europea, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Onu e anche la disciplina interna, con sentenze della Cassazione».
Nel caso di Grandini basterebbe fare lo smart working. «Con queste indicazioni ho fatto ricorso – conclude Mazzini –. Altrimenti si configura la discriminazione indiretta del lavoratore. Per questo ci siamo rivolti al tribunale del lavoro di Mantova. Chiediamo lo smart working prima che si aggravi la situazione e diventi irreparabile per la salute di Grandini».
Fonti aziendali della Marcegaglia fanno sapere la posizione della società. «Da molti anni adattiamo il lavoro alle esigenze del dipendente, lo abbiamo sempre seguito e tutelato. Lo smart working costituisce per noi un problema in uno stabilimento in cui nessuno è in smart e che renderebbe complicato anche lo svolgere delle attività dello stesso dipendente. Detto ciò, l’azienda sta valutando la situazione».