Una triste ricorrenza per Forlì. È passato un mese da quando l’alluvione ha messo in ginocchio interi quartieri, vie e zone della città.
“Pericolo esondazione. Abbandonate i piani bassi e interrati. Recatevi ai piani alti. L’onda di piena è prevista dalle 19.30 alle 20.30 con alcune zone di sicuro impatto. La situazione di emergenza riguarda in ogni caso tutta la città. I quartieri e gli isolati vicino ai corsi d’acqua sono quelli più a rischio di esondazione. Non uscite assolutamente di casa o da dove vi trovate in questo momento”. Questa la comunicazione ufficiale del Comune alle 18.44 del 16 maggio che confermava la gravità della situazione. Alle 20.29 la catastrofe per alcune zone di Forlì si era materializzata. “È in corso l’esondazione del Montone a valle del ponte di Schiavonia, nell’isolato compreso tra le vie Cormons, Monte San Gabriele, Nervesa, Martiri delle Foibe e vie limitrofe. Si chiede a tutta la popolazione di questa zona di lasciare le abitazioni e di mettersi in sicurezza”, recitava l’Amministrazione.
Oggi quelle stesse strade, quelle stesse case, quelle stesse persone così ferite dall’alluvione scatenata il 16 maggio e nelle ore successive, stanno cercando una qualche normalità, ma i segni della devastazione restano visibili.

Il racconto
«Il Comune tra le 18 e le 20 ha avvertito almeno due volte, poi quando c’era già l’acqua sono passate le auto della Polizia locale. Quella sera erano circa le 20.30 quando abbiamo visto l’acqua arrivare – racconta Francesco Battista, che abita in via Nervesa, ai Romiti – due dita di acqua e fango: non ci immaginavamo potesse arrivare a 3 metri e 40 centimetri in casa, come è poi successo. All’inizio abbiamo portato le cose più preziose al piano di sopra. Abbiamo alzato l’ultima barricata e siamo andati in via Martiri delle Foibe dai miei suoceri. Dopo cena guardavo l’acqua che era arrivata a 20-30 centimetri, ma le barricate tenevano. Verso le 2 mi ha svegliato mia moglie perché giravano gli elicotteri sopra la nostra borgata tra via Nervese, via Cormons, via Monte San Gabriele. Mi sono affacciato e ho visto che l’acqua era entrata 30 centimetri dentro il primo piano e ho realizzato che tutto quello che avevamo lì dentro era da buttare al macero. Oggi (ieri, ndr) sono tornato in via Nervesa e ancora faccio fatica ad entrare nella borgata e parlare con le persone. La casa è ancora sporca di fango nonostante si pulisca. Personalmente devo ringraziare tutti i vigili del fuoco, il Soccorso alpino e l’Esercito perchè ogni ora, quando ero nella casa dei miei suoceri, avevo sempre un gommone sotto casa che ci chiedeva se avessimo bisogno di qualcosa e come stavamo».
