Forlì. Il pneumologo Poletti: "Nuove varianti Covid meno gravi per i polmoni"

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La pandemia in due anni ha messo a dura prova gli ospedali e il lavoro dei sanitari, ma ora la situazione è sotto controllo anche se ci vorrà ancora tempo prima di tornare alla normalità. Sul tema interviene Venerino Poletti, professore straordinario dell’Università di Bologna e direttore della Pneumologia dell’ospedale Morgagni di Forlì, sempre in prima linea nella cura dei pazienti con Covid19.

Professor Poletti, la pandemia è davvero finita e si tornerà quanto prima alla normalità?

«Credo che il mondo non sarà più come prima, nel senso che il Covid ha cambiato radicalmente l’organizzazione degli ospedali. C’è molta più attenzione sul controllo dei flussi in ospedale, sul controllo delle possibili vie di trasmissione delle infezioni e credo che ciò rimarrà. Anche dai disastri si può e si deve imparare. Mi aspetto che prima o poi il coronavirus assumerà il ruolo di altri virus a Rna, diventando una sorta di influenza. La cosa più importante è continuare a vaccinarsi, perché i vaccini contro il Sars-CoV 2, hanno salvato molte vite e ne salveranno molte altre. Le persone devono capire che è importante vaccinarsi, senza avere paura. Da noi in Romagna si dice “piuttosto che niente è meglio piuttosto”, questo è il principio che va seguito. Bisogna vaccinarsi».

Il Covid però è sempre presente, con la comparsa di nuove varianti ogni anno, che previsioni ci sono per questo inverno?

«Adesso si sta manifestando l’aumento della sottovariante BA 2.75 dell’Omicron che dovrebbe emergere e contagiare gran parte della popolazione alla fine di quest’anno e inizio del prossimo. Si sa già molto, è una variante che ha più capacità di eludere il controllo immunologico dato da una precedente infezione o dai vaccini. Però le notizie buone sono che i virus di questa variante entrano nelle cellule umane utilizzando un meccanismo chiamato “endocitosi” che permette l’ingresso soprattutto nelle cellule delle alte vie aeree e non nelle cellule dei polmoni. Quindi i sintomi sono più che altro raffreddore, febbre, mal di testa. Detto questo, io credo che se prendiamo lezioni dalla storia delle precedenti pandemie vediamo che all’inizio esordiscono con un’onda spaventosa perché non c’è nessun tipo di immunità, poi le onde diventano via via meno importanti. Anche con il coronavirus è successo questo: è stato molto aggressivo all’inizio, poi grazie ai vaccini, alla diffusione della infezione, le onde si sono attenuate e saranno sempre meno importanti».

In questo momento com’è la situazione in Pneumologia? Ci sono persone ricoverate con il Covid?

«Attualmente abbiamo dei pazienti ricoverati con infezione virale da Sars Cov2 ma si tratta di persone che hanno altre patologie. Solo i pazienti immunodepressi, oppure non vaccinati presentano la classica polmonite interstiziale con insufficienza respiratoria. In questo momento in Pneumologia a Forlì abbiamo ancora 8 letti occupati da pazienti Covid, mentre sono 24 i pazienti non Covid nei restanti 24 letti di degenza».

Le conseguenze del coronavirus si faranno ancora sentire? Ci sono casi di pazienti che dopo la malattia faticano a riprendersi completamente?

«Sì, ci sono delle conseguenze per alcune persone. Sono più frequenti in chi si è ammalato gravemente o è stato intubato e ventilato; non è molto alto il numero di questi casi, ma non va sottovalutato».

Sul fronte delle visite specialistiche e delle liste d’attesa, qual è la situazione?

«L’amministrazione ci ha molto aiutato sul fronte del personale e possiamo contare su un gruppo nutrito di pneumologi. Ora che siamo sede universitaria abbiamo anche l’onore di formare specializzandi dell’Università di Bologna o specializzandi da altre università italiane e straniere. E’ chiaro che veniamo da due anni di grande impegno e c’è qualche traccia di stanchezza. Il fatto di doversi dedicare al Covid ha portato a un rallentamento nelle visite ordinarie dove l’attesa è ancora di circa 4 mesi e mezzo, mentre per le visite prioritarie riusciamo a rispettare i tempi previsti; siamo infatti a tre giorni. In generale cerchiamo di arrivare alla riduzione dei tempi di attesa agendo su due fronti: da una parte dedichiamo più risorse alle visite ambulatoriali, dall’altra puntiamo a ridurre la richiesta di visite incrementando la collaborazione con i medici di famiglia».

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