Forlì, il soprano Wilma Vernocchi racconta 60 anni di carriera

Se c’è un’aria che la rappresenta, questa è sicuramente “Un bel dì, vedremo”, intonata da Cio-Cio-San in quella “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini che l’ha resa celebre in tutto il mondo. Se però, invece di musica lirica, il suo ritratto fosse una canzone pop, allora nulla meglio de “Il mio canto libero” può identificare chi è stata e chi è ancora oggi a 80 anni, Wilma Vernocchi. Il suo canto è sempre stato libero come lei e basta ascoltarla per accorgersi che il passato, una carriera che ha raggiunto i 60 anni, non è mai il centro del suo racconto. Semmai lo è il presente, anzi ancor di più il futuro: “Un bel dì, vedremo”, appunto. Sì, perché la soprano forlivese che mercoledì sul palco dell’Arena San Domenico festeggerà idealmente entrambi i compleanni, accompagnata da amici, colleghi musicisti e tantissimi suoi allievi di ogni nazionalità, a 80 anni ha inciso un nuovo disco: “Chi canta il suo dolore, incanta” è il titolo, ma dentro c’è solo gioia di esprimersi, oggi come quando Wilma Vernocchi era «una bambina che voleva solo cantare, come faceva sua madre, Isotta, a casa». Un disco unico e libero, come lei, che nelle sue 24 tracce omaggia Francesco Paolo Tosti, compositore che tra fine ’800 e inizio ’900 musicava testi dei poeti suoi contemporanei. «Il disco contiene 13 poesie di Gabriele D’Annunzio, tutte inedite, nessuno le aveva mai incise, l’ho fatto io, era un desiderio che nutrivo da 10 anni – afferma Wilma Vernocchi –. Ho trovato un bravo pianista forlivese 23enne, Alberto Rinaldi, abbiamo studiato assieme un anno e siamo andati a registrare a Torino». Il disco è fresco di stampa, è stato chiuso ad aprile. Vernocchi lo guarda e sorride: «L’ho registrato anche per un altro motivo, sa? Così do 80 metri di distacco alle mie colleghe. Queste registrazioni sono pane per i collezionisti: non esistono tanti dischi realizzati da una soprano ottantenne, una che non doveva neppure iniziare a cantare».

Il richiamo del canto

È così, la musica non sembrava nel suo destino. Per fare sì che lo diventasse, è servito abbattere tanti muri di diffidenza, superare tanti ostacoli, anche quelli familiari e interiori, quelli dettati dalle convenzioni. «Tutti possono cantare, anzi tutti devono cantare: anche gli stonati che io adoro e che sono solo dei musicisti che non riescono ad accordare il loro strumento – si illumina la soprano –. Il problema è che non canta più nessuno, per le strade, nelle case, viviamo chiusi in noi stessi, oppure cantiamo solo avendo in mente di fare successo. Mia madre cantava sempre, io volevo essere come lei anche se teoricamente non avrei potuto. Ero timida, ero afona, avevo sempre laringiti e faringiti. Però volevo farlo e un giorno, di nascosto, andai in viale Corridoni dalla pianista Nora Motta Pontedera». La sua vita cambiò. «Mi ascoltò e mi disse che, se volevo, potevo studiare e fu come uscire dal bozzolo. Da allora lottai con tutta me stessa e anche contro la mia natura, per realizzare i miei desideri. Anche contro le diffidenze di familiari e conoscenti, ma è ciò che una persona che coltiva un sogno, deve fare. Quando mi sono forzata ad insegnare io stessa, ho trovato tantissime altre nature rinchiuse dentro un guscio che chiedevano solo di potersi esprimere».

Il debutto a Magliano

Proprio per questi motivi, Wilma Vernocchi considera come suo vero debutto l’Ave Maria di Schubert intonata il 16 marzo 1958 durante la messa alla chiesa di Magliano. «Maturai immediatamente la passione per la lirica, non saprei dire perché, forse era l’istinto a dettarmi la strada, una predisposizione – afferma –. Quando cantai a Magliano, tutti si stupirono nel vedere che ero io, non ci credevano perché avevano sempre detto “ma cosa vuoi fare, lascia stare”. Fu il mio modo per dire alle persone che stavo studiando canto e ho tenuto duro, anche quando inizialmente non fui ammessa al conservatorio. L’ho fatto perché credevo, e credo, che la voce sia il colore dell’anima, ognuno diverso. Va semplicemente disvelato, per questo bisogna insegnare canto ai bambini. Io ho semplicemente il mio colore».

Una Scala per il mondo

L’ascesa di Wilma Vernocchi iniziò quando, nel 1966, fu scelta dal Centro perfezionamento artisti lirici del Teatro alla Scala di Milano. «C’erano maestri meravigliosi, con grande cultura che sapevano individuare i giovani di valore e li lanciavano. Io iniziai a interpretare ruoli secondari, poi per evitare di restare comprimaria a vita mi iscrissi al 2° concorso internazionale Madama Butterfly in Giappone. E lo vinsi per la migliore interpretazione ed esecuzione del personaggio». Il mondo scoprì una 28enne da Forlì di grande fascino e bravura. «Ero la concorrente più giovane, ma studiai due anni, prima il libretto, che è basilare, poi la musica, poi tutte le movenze, la danza nipponica, come indossare il kimono e muovere i ventagli. Da allora mi sono sempre preparata così, come una vera attrice. Stati Uniti e Unione Sovietica iscrissero le loro soprano più celebri, ma niente… vinse un’allieva romagnola».

La Callas e il “no”

Il Giappone la adottò, poteva iniziare una carriera ancora più fulgida di quanto già non lo sia stata. «Vero, ma negli anni ’70 conobbi Maria Callas, in tour in Giappone con Giuseppe Di Stefano – sospira -. Stetti con lei un mese e vidi una donna svuotata, senza più alcun entusiasmo. Mi chiesi se era quello il prezzo per il successo e mi risposi che, anche se allora volevo spaccare il mondo, quel prezzo non intendevo pagarlo. Scelsi di vivere a modo mio, di non sottostare al dover essere, all’apparire, all’essere gestita. A inizio anni ’80 sono tornata a Forlì, non ho mai rimpianto quella scelta. Ero una donna che non puntava alla celebrità, ma solo a realizzare se stessa». Anche se tutti la osannavano? «Certo, ma nonostante i complimenti, anche sinceri, io non mi sono forse mai resa conto del mio vero valore, non mi accorgevo di essere così brava, puntavo solo a studiare, per migliorare. Credo faccia parte del dna dei romagnoli».

La festa con gli allievi

La fama internazionale, però, è rimasta. Da quando ha deciso di insegnare canto, ha girato il mondo e tanti allievi da ogni nazione sono arrivati a Forlì per lei. Mercoledì alle 21 tantissimi di loro la raggiungeranno per essere suoi ospiti al concerto (già esaurito nei suoi 400 posti) dell’Arena San Domenico. «Sono 30, volevano essere presenti anche molti di più, ma non era possibile, già è stato difficile perché davvero ho organizzato tutto io personalmente – sorride –. Io mi limiterò a fare tre canzoni, voglio fare esibire loro». Mentre lo dice, gli occhi girano la stanza e osservano i cimeli di 60 anni di carriera. «Li sto inscatolando, perché devo decidere solo io dove dovranno andare. Anche se è come strapparmi la pelle. Molte cose sono andate e andranno al museo di Torre del Lago e altre esposte a Latina al Dizionario della Musica. A Forlì? Ringrazierò sempre la mia città per tutto l’affetto che la gente mi tributa tuttora, ma purtroppo non ci sono spazi per questo racconto».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui