Forlì ha capolavori d'arte nascosti da 26 anni

Negli anni Forlì si è connotata come città di cultura e d’arte, ma c’è un patrimonio sommerso che da decenni è precluso agli occhi dei forlivesi, specie alle nuove generazioni e non solo. Tanto è da imputare alla chiusura di Palazzo del Merenda (questo avvenne nel 2013 quando si rilevarono problemi strutturali allo storico edificio, ndr) dove le opere del Guercino e del Cagnacci sono visitabili solo su appuntamento, mentre altre produzioni artistiche come quelle del Canova o Silvestro Lega sono ancora allestite ma non visibili agli occhi dello spettatore. Tutto il resto del patrimonio, una parte consistente, è nei depositi. Le opere degli artisti del ’900 come Maceo, Angelini o Silvestroni, ma anche l’armeria Albicini, lo stesso allestimento etnografico romagnolo nascosto dal 2004 che vanta il prototipo di un auto costruita da Ilario Bandini e donata al Comune o anche un esempio di locomobile a vapore per la mietitura, la gipsoteca con il busto di Lorenzo il magnifico e Machiavelli, il museo della ceramica e il museo archeologico, chiuso dal 1996.

«Tuttora i manufatti e i reperti sono lì, ma nascosti da 26 anni» racconta Luciana Prati, per decenni dirigente dei musei civici e attivista di Italia Nostra, la quale ha avviato il ciclo di incontri “Archeologia in dialogo” (oggi alle 17 circolo Aurora con Mirko Traversari). «Ci sono mosaici romani risalenti al I secolo dopo Cristo. L’ultimo riallestimento importante nel seminterrato del Palazzo del Merenda risale al 1962. La particolarità sta proprio nel fatto che i ritrovamenti hanno sempre avuto una valenza territoriale, fra i materiali archeologici anche i corredi sepolcrali di una necropoli risalenti all’età del rame ritrovati ai Romiti e ora a Faenza nel deposito della Soprintendenza, così come restano un mistero le tracce di un villaggio, sempre dell’età del rame. Nascosti anche i mosaici della villa teodoriciana rinvenuta a Meldola».

Un fiore all’occhiello sconosciuto a tanti forlivesi, specialmente quelli nati a partire dalla seconda metà degli anni ’80, che non hanno potuto godere dei ritrovamenti risalenti alla preistoria. «Poco prima che il museo archeologico venisse chiuso, si tenne un convegno internazionale qui a Forlì proprio su questo periodo storico – prosegue Prati –. A Cà Belvedere di Monte Poggiolo, infatti, ci furono degli scavi che portarono alla luce reperti risalenti al paleolitico inferiore». Si tratta di ben 1.319 manufatti, in larga parte composto da schegge di pietre ma anche da 153 ciottoli lavorati. Tutto questo è valso al sito archeologico il titolo di uno dei più importanti scavi antichi mai ritrovati in Europa. Ma dal 1996, nessuno li ha più visti. «Molti dei ritrovamenti degli ultimi 30 anni sono in deposito o non visibili, tante generazioni non hanno potuto toccare con mano la storia che studiavano a scuola – conclude Prati –. Nel caso specifico dei manufatti di epoca preistorica, ora si trovano a Ferrara per un aggiornamento degli studi. Il rischio, se Forlì non si attrezza per allestire degli appositi spazi, è di non poterli vedere esposti mai più».

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