Forlì, Gabriella Maldini presenta "Prigioni" alla Mondadori

Negli anni Settanta si definiva la famiglia «ariosa come una camera a gas»: Gabriella Maldini la mette al centro di “Prigioni” (Robin&Sons), romanzo che mutua un taglio cinematografico dalla sua passione per la decima musa. L’autrice presenta il libro al Mondadori Store di corso della Repubblica 144 a Forlì, il 12 gennaio (ore 18), con Mario Proli e Luca Cenacchi.

«La famiglia è il luogo che riguarda tutti – commenta Maldini –, e anche se non ne abbiamo sperimentato una tradizionale, è comunque un’idea, un luogo interiore da cui la formazione non può prescindere».

Nel suo romanzo compaiono una madre dominante, un figlio che ha tutto e la ragazza di cui lui si innamora, l’elemento estraneo.

«Sì, Lucia, che lavora come agente penitenziaria, mano a mano svela le prigioni interiori in cui lei stessa, Alessandro, sua madre sono rinchiusi senza rendersene conto. Per questo “Prigioni” è anche un romanzo di formazione in cui i tre compiono un percorso, verso la consapevolezza sulla loro situazione».

Quale personaggio le è più caro?

«Alessandro è il più strutturato per rompere la vita confezionata in cui l’affetto possessivo della madre lo tiene chiuso. Ci si trova anche bene, in realtà: ma non gli basta, perché lui non è lì. Non riesce neppure a conciliare i due amori, quello patologico della madre, quello in parte misterioso e sconvolgente di Lucia, che ha già superato il punto di non ritorno. Ecco, Lucia è il personaggio più tragico e interessante, nasconde fragilità, paure e ferite profonde con un atteggiamento ostentatamente freddo e cinico. Non vuole perdere il controllo: quindi, ama Alessandro ma non lo seguirà…».

Per Lucia quindi la formazione è fallimentare.

«Infatti l’editore quando lo ha letto lo ha definito un romanzo “nero”, perché vi descrivo il luogo oscuro che la famiglia può essere. Poi, ho cercato di controbilanciare quel buio con un ritmo veloce, con molti dialoghi che fanno emergere i caratteri, con passaggi brevi e visivi».

Perché questa scelta?

«Volevo che la narrazione fosse attrattiva e frequentabile anche dai giovani, da possibili figli. Per loro le cose possono ancora cambiare, anche col leggere una storia che li riguarda. Mi sembrano molto soli, lontani da genitori con cui non parlano e non si confrontano, e l’uso stesso della lingua per loro è difficoltoso. Sono come pentole a pressione, senza neanche lo sfogo delle parole, alla ricerca di qualcosa che noi non sappiamo dargli. Negli adulti infatti vedono indifferenza e insincerità, quando cercherebbero soltanto, in fondo, attenzione e verità».

Un romanzo che è anche impegno civile, per lei?

«In parte sì: vorrei contribuire alla vita e al benessere della mia comunità… Per questo ho adottato una lingua che non sia una barriera, e ho scelto di raccontare questa storia».

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