Flaiano e Fellini, c'eravamo tanto amati e... odiati

RIMINI. Si amarono tanto che finirono per odiarsi. Sarebbe facile sintetizzarla così. Il punto è che rimane difficile, forse irrisolvibile ancora oggi, parlare della collaborazione e del rapporto tra Federico Fellini e uno dei suoi sceneggiatori di punta, Ennio Flaiano. Scrittore, giornalista, critico cinematografico, drammaturgo, sceneggiatore, primo vincitore del Premio Strega con il romanzo “Tempo di uccidere” (1947), caporedattore («cupo redattore» ironizzava lui) fino al 1951 della rivista Il Mondo.
Non incasellabile
Figura di letterato, celebre per i suoi aforismi, ancora oggi Flaiano non è facilmente incasellabile, e certamente resta troppo in ombra tra le figure del nostro Novecento.
Flaiano collaborò ai film di Fellini da “Luci del varietà” (1951) a “Giulietta degli spiriti” (1965). Si erano conosciuti a Roma già prima della guerra, quando Fellini lavorava al periodico Marc’Aurelio e Flaiano – di dieci anni più anziano, era nato il 5 marzo del 1910 – al settimanale Omnibus, fondato nel 1937 da Leo Longanesi ma che ebbe vita breve (fu soppresso dal regime fascista nel ’39). Due mondi diversi: da un lato il regno della satira, dall’altro una redazione con un concentrato di intellettuali (da Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio, Alberto Savinio…) di area liberal, ovvero «quel tanto di latente antifascismo che poteva manifestarsi negli anni Trenta», come scrive Eugenio Scalfari riferendosi anche alla “fronda borghese” di Leo Longanesi, nel suo “La sera andavamo in via Veneto” (Einaudi, 2009).
Vestito di lino bianco
Di quel primo incontro così raccontò Fellini: «L’unico di questi personaggi, che qualche volta ci salutava scherzosamente anche strizzando l’occhio come a farci capire che stava più con noi che con gli altri, era appunto Flaiano. Me lo ricordo tutto vestito di bianco, di un lino bianco, spippettante, una volta entrò a curiosare nella nostra redazione alle tre del pomeriggio di un giorno d’estate. […] Lui è entrato, ha chiesto permesso, si è messo a guardare delle vignette, delle caricature che erano appese alle pareti. Io mi sono presentato e gli ho detto che lo ammiravo moltissimo, ma… non era proprio vero. Lui ha detto che ammirava moltissimo anche me, ci siamo detti che ci ammiravamo moltissimo».
«Un film non è un picnic»
Insieme a Tullio Pinelli, Brunello Rondi, e in seguito Bernardino Zapponi e Tonino Guerra, Flaiano è stato e resta uno dei grandi “autori” che contribuirono a rendere dei capolavori i film Fellini. Come lui stesso dichiarò (anche piuttosto seccamente) a Tullio Kezich in una intervista durante la lavorazione de “La dolce vita”, «nel mondo poetico felliniano, come lei dice, non mi “ritaglio” nessuna fetta. Un film non è un picnic, finito il quale ognuno si riporta a casa i suoi cestini vuoti e gli avanzi».
«Trovo che Fellini e Flaiano siano da considerare due figure complementari» osserva Stefano Stoja, studioso di letteratura italiana che negli anni ha scandagliato i materiali del Fondo Flaiano custoditi dalla Biblioteca cantonale di Lugano. «Lo spessore culturale di Flaiano – spiega – è un complemento alla capacità di avere una visione dell’opera di Fellini. La dimensione di Flaiano era la parola scritta, era una dimensione raffinatissima e lo si nota anche nelle sceneggiature, nella sua tavolozza espressiva, così piena di sfumature».
In uno scritto uscito per la rivista Carte vive nel 2010 (centenario della nascita di Flaiano) Stoja aveva analizzato quella che è possibile sia stata la prima stesura della sceneggiatura de “La dolce vita”, nelle parti scritte da Flaiano: è conservata a Lugano insieme alla macchina da scrivere usata dallo scrittore pescarese.
Scriveva di getto
Scrive Stoja, analizzando la battitura della celeberrima scena del bagno nella Fontana di Trevi, che Flaiano sembra avere scritto di getto. «Per tutta la durata della scena – continua – “sta” quasi solo su Marcello», sembra seguirne «i moti interiori dell’animo» mentre segue con lo sguardo Sylvia che entra nella vasca. Rispetto al film «la discrepanza più palese – osserva lo studioso – è che nella versione scritta non compare la celeberrima battuta di Sylvia che, irresistibilmente invitante, grida: “Marcello… Come here!”». «Le sceneggiature di Flaiano sono vere e proprie partiture visuali» ne conclude lo studioso che ora sta lavorando a un altro scritto che estende l’analisi anche ad altri film, tra cui “8 ½”.
La rottura a Los Angeles
La narrazione sui rapporti tra Fellini e Flaiano immancabilmente si cristallizza sulla rottura avvenuta in occasione del viaggio a Los Angeles, nell’aprile 1964, per le quattro nomination che “8 ½” aveva ottenuto agli Oscar (due le statuette che furono assegnate: miglior film straniero e a Gherardi per i costumi). Sul volo da Roma a Los Angeles la produzione mise Pinelli e Flaiano in classe turistica, Fellini e Rizzoli in prima classe: Flaiano se ne ebbe, credendo Fellini il responsabile. Finì che dopo “Giulietta degli spiriti” non lavorarono più insieme. Dopo anni però ripresero a sentirsi. Probabilmente a capirsi. E quando Flaiano morì, nel 1972, stroncato da un infarto, il regista lo ricordò con ammirazione: «Era un miscuglio di complicità, di solidarietà, di permalosità…» disse, e definì un «equivoco ridicolo» l’episodio che provocò anni prima la rottura. «Ennio era capace di tradimenti vergognosi – aggiunse Fellini – però nello stesso tempo di conciliazioni altrettanto coinvolgenti. Insomma era un carissimo amico».
«La tua opera più viva»
Da parte sua Flaiano, che pure non aveva risparmiato critiche ad alcuni aspetti dei film del maestro, negli ultimi anni della sua vita rivide alcuni giudizi e l’apprezzamento nei confronti di Fellini apparve netto. In una lettera a Fellini dell’8 febbraio del 1969 definì “La dolce vita”, rivisto dieci anni dopo l’uscita, «affascinante, pieno di una realtà che ancora adesso si sta decifrando, un film poi che lascia storditi per l’abbondanza e la precisione dei motivi, dei personaggi e delle storie che si intrecciano come in un grande telaio, e ognuna completa l’altra. Insomma un romanzo, non un racconto… Credo che resti la tua opera più viva in questo senso, proprio per la carica di pietà e di ansia per un mondo che sta uscendo dai binari e affretta il momento della disperazione». «Sono caduto nel film – confessò – come se non l’avessi mai visto prima».
Distanza culturale
E prima, appunto, non aveva risparmiato punzecchiature. Lo ha ricordato qualche giorno fa anche il critico del Corriere della Sera Aldo Grasso, in un articolo in occasione della programmazione su Rai Movie del film “La dolce vita” (questa sera alle 21.10 toccherà a “8 ½” grazie alla rassegna che proseguirà fino a luglio “Fellini, realista visionario”), uscito sessant’anni fa. «Più passa il tempo, più si rivede il film – scrive Grasso – e più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire». Una distanza che Grasso ritrova espressa nel commento dello stesso Flaiano in occasione della proiezione di alcune scene del film all’epoca della sua realizzazione: «Il gongorismo – scrisse Flaiano –, l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? È un’ipotesi tentatrice». La riprova, per Grasso, del «contrasto tra la scrittura barocca, composita, grondante metafore di Fellini e lo stile aforistico di Flaiano, tra il mondo “caricaturale” del regista e quello intellettuale dello scrittore (e del gruppo del Mondo, cui apparteneva)».

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