«Il pubblico è coautore in questo lavoro, aiuta a ricordare, a dire qualcosa che equivale per me a una sfida e ogni volta si crea un’alchimia speciale».
Così Filippo Nigro, uno dei più interessanti attori di cinema, televisione, tante serie e teatro, sua grande passione, sintetizza il senso del coinvolgimento del pubblico nello spettacolo da lui codiretto e interpretato, “Every brilliant thing. Le cose per cui vale la pena vivere”. Un grande successo giunto alla seconda stagione con all’attivo decine di repliche e continue richieste, grazie all’ottimo bilanciamento tra l’essere divertente e commovente insieme.
Ne è autore lo scrittore britannico Duncan Macmillan, la drammaturgia è del 2013 composta con Jonny Donahoe che ne è stato il primo interprete. Lavoro che va in scena il 23 aprile alle ore 16.30 nella sala Il Ritrovo di Fiorentino nel territorio di San Marino, e rappresenta l’ultimo appuntamento della rassegna “Sguardi oltre la scena. Incontri fuori dal teatro”, a cui fa sempre seguito l’offerta di un aperitivo.
Originalità e continua sorpresa caratterizzano lo spettacolo che si struttura grazie alla complicità di alcuni spettatori chiamati a dare un contributo per far sì che i ricordi del passato prendano vita e siano di ausilio al protagonista. Così, grazie alla risposta dell’audience, alla temperatura emotiva e alle reazioni che si creano, l’evento non è mai lo stesso, anzi è sempre diverso.
Il tutto è basato su un testo, serrato e divertente, che riesce a toccare con raffinata sensibilità e con una non superficiale leggerezza un tema delicato e complesso come la depressione e i drammi a cui essa può condurre. E la scelta di un’ambientazione insolita – a San Marino si sviluppa in una sala e non su un palcoscenico – ne arricchisce il carattere partecipativo concretizzandosi in una vera e propria esperienza da parte del pubblico.
Nigro, la curiosità è tanta, cosa accade a ogni replica e come si rapporta lei con l’improvvisazione?
«Inevitabilmente ogni spettacolo teatrale, anche il più classico, cambia di replica in replica, a seconda del pubblico che ha di fronte, ma in questo veramente ciò accade in modo sorprendete ed emozionante. Perché io ogni volta devo trovare una sponda a cui aggrapparmi e lascio libertà anche se devo comunque contenere. La massima improvvisazione è assicurata. Vengo da quattro repliche napoletane particolarmente esilaranti, devo dire che lì il pubblico si è così tanto lasciato coinvolgere che non sembrava più uno spettacolo ma una chiacchierata tra me e loro, non c’era solo disponibilità ma molto di più, rendendo nel complesso l’esperienza divertentissima».
Può spiegare il meccanismo del coinvolgimento? E cosa lo fa scaturire?
«Si tratta di un dispositivo preciso, particolare che fa scattare il tutto. Il mio è un racconto di autofiction scandito da una lista di cose per cui vale la pena vivere, che è di fatto un mantra di sopravvivenza, che mi serve per tentare di fornire a mia madre un inventario che sia di utilità, proprio a lei che non crede più nella vita».
Che tipo di lista è?
«Una lista lunga, costruita negli anni a partire dall’infanzia fino alla vita adulta, in cui sono enumerare un milione di valide ragioni. Essa è lo scheletro del testo e sono proprio i numeri di ciascun punto della lista a scandire i tempi e i momenti, che io condivido con chi è presente a cui mi rivolgo con tono confidenziale e coinvolgente. La lista è figlia della mia intimità, imprevedibile, emozionante e personalissima, fatta di episodi e aneddoti catturati al volo a margine di libri, scontrini e sottobicchieri del pub. Si dà vita a un racconto umano e informale di momenti speciali, illuminazioni, piccole manie, incontri, emozioni e attimi indimenticabili».
Di fatto può essere considerata una sorta di confessione dove si affrontano tematiche anche forti, e la lista un diario-salvezza anche contro il dolore dell’anima?
«Sì, certo. Perché anche il senso di colpa si fa strada nella mia psiche di fronte al dolore per il gesto drammatico tentato da mia madre. Ma il gioco che viene a crearsi, talvolta inciampando in incidenti buffi e simpatici, talaltra attivando allontanamenti e avvicinamenti, spesso sortendo effetti di lieve ironia, offre al lavoro un tono bilanciato e leggero. Con gli spettatori stringo dei patti, come un tacito accordo, fin dall’inizio quando li aspetto a luci accese e sono lì in mezzo, e la loro è una consapevolezza partecipata».
Lei e il coregista avete cambiato qualcosa del testo originale?
«Lo abbiamo rispettato in modo assoluto operando soltanto un cambiamento. Fabrizio Arcuri che ha curato la regia con me – ed era impossibile che io non me ne occupassi visto che poi in scena ci sono io che devo modificare di volta in volta il tiro – persegue anche qui la sua personale ricerca di costruzione di immaginari collettivi che affrontano riflessioni sulla vita, sulla società in cui viviamo e sul senso del teatro. Quindi, come ho detto, rispetto assoluto del testo, ma dopo le prime prove aperte abbiamo deciso di accentuare la partecipazione, perché funziona meglio e il lavoro cresce e migliora».
Accanto a tanto cinema colto e acclamate serie televisive che le hanno fatto ottenere tanti riconoscimenti, lei sceglie di fare teatro, perché? Una passione irrinunciabile?
«Il mio debutto a fine primo biennio al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma è stato con un testo teatrale in inglese. Io non posso pensare di non fare teatro. Potrei farlo sempre di continuo. Il rapporto e l’esperienza dal vivo vanno ad arricchire tutto quello che faccio altrove”. Ingresso 10 euro.
Info: 0549 882452