Fellini e Rossellini come il gatto e la volpe

Cultura

«Il cinema italiano, che si schiantò nel 1943 sotto il peso di Scipione l’Africano, è resuscitato con Roma città aperta, prima pietra del neorealismo».

Bastò poco a François Truffaut, regista francese della Nouvelle Vague, per definire la portata del film diretto nell’immediato dopoguerra da Roberto Rossellini e subito divenuto un classico.

Dietro quella resurrezione, c’è anche la firma di Federico Fellini. E c’è, per il regista riminese, l’incontro con il proprio destino. È infatti grazie alla collaborazione avviata in occasione di Roma città aperta, come sceneggiatore di Roberto Rossellini, che Fellini intorno ai 25 anni sperimenterà anche i primi significativi approcci con la macchina da presa, e scoprirà così la sua vera vocazione e passione.

Tutto cominciò «in un giorno di fine estate del 1944» come ricorda il biografo di Fellini, Tullio Kezich. Il riminese, che già si era fatto un nome come sceneggiatore, sbarcava il lunario nella Roma post bellica nel negozio di caricature Funny Face Shop. È qui che lo va a cercare Rossellini, per chiedergli in prima battuta di convincere l’amico Aldo Fabrizi ad accettare la parte di don Pietro nel film Roma città aperta, e finirà per coinvolgerlo nella sceneggiatura.

Roma città aperta, Paisà, Francesco giullare di Dio, Europa 51: capolavori e pietre miliari della storia del cinema. Federico Fellini collaborò a tutti alla sceneggiatura. Nel mediometraggio Il miracolo (1950) fu anche attore (con i capelli biondi) al fianco di Anna Magnani. Ebbe un ruolo anche in Dov’è la libertà (’52), che gli regalò addirittura l’occasione, unica, di dirigere in una scena un suo mito: Totò.

La svolta di Paisà

«Ricordo un momento in cui capii che mi trovavo a una svolta nella mia carriera, nella mia vita – dirà Fellini –. Rossellini stava lavorando in una stanzetta buia, con lo sguardo intento alla moviola. (...) Avvertì la mia presenza e mi fece cenno di avvicinarmi e di condividere con lui quell’esperienza. Credo che quello fu il momento che forgiò la mia esistenza».

Fu Paisà a segnare la svolta: fu esperienza cruciale non solo perché Fellini girò quella che fu probabilmente la sua prima scena (una damigiana d’acqua fatta passare da una strada all’altra), ma anche per un “viaggio in Italia”, dalla Sicilia al Veneto, che gli aprì gli orizzonti.

«Rappresentò un momento molto importante nella mia esistenza» dirà ancora Fellini a proposito di questa esperienza che lo vide protagonista anche per il contributo di scrittura alla scena dei frati girata nel convento di Maiori, in Costiera Amalfitana. Un episodio in cui «c’è già in nuce il carattere e lo spirito del San Francesco» del successivo film di Rossellini Francesco Giullare di Dio (1950), nota il critico Gianni Rondolino. Dopo avere scritto, insieme a Tullio Pinelli, l’episodio de Il miracolo, sarà infatti ancora il futuro regista a scrivere per Rossellini la sceneggiatura del film sul poverello di Assisi, ispirato ai Fioretti e interpretato dai frati di Maiori.

Il sodalizio è maturo, la “lezione” rosselliniana è ormai esperienza acquisita per Fellini che di lì a poco esordirà a tutti gli effetti alla regia, prima a quattro mani in Luci del varietà (con Lattuada) e poi ne Lo sceicco bianco, proseguendo con I vitelloni e poi con La strada.

«Quella strada fangosa battuta dalla pioggia in fondo alla quale, nella prima inquadratura, appaiono i fraticelli tornando dall’incontro con il Papa – fa notare Tullio Kezich a proposito di Francesco Giullare di Dio – è già uno dei sentieri selvaggi dell’itinerario di Zampanò. E il simpatico fra’ Ginepro, mezzo scemo e mezzo ispirato, annuncia l’avvento di Gelsomina».

Più gatto e la volpe
che allievo e maestro

Certamente, le circostanze anagrafiche – Rossellini era di quattordici anni più anziano di Fellini – e quelle che si possono attribuire al destino, hanno portato a inscrivere la relazione tra i due grandi del cinema all’interno del binomio allievo-maestro. Lo stesso Fellini riconosce la discendenza in questi termini: Roberto Rossellini, affermò, è stato per lui – per la sua carriera, per la sua vita di cineasta – come un vigile «che mi ha aiutato ad attraversare la strada», «gli riconosco, nei miei confronti, una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi».

E ancora: «Lavorando con lui capii che girare film era esattamente quel che volevo fare».

Inscindibile relazione. E fu anche intensa amicizia. Fino e oltre la morte: «Vorrei che vivesse in me, almeno in quello e in quel tanto che mi ha dato» confiderà Fellini all’amico padre Arpa che gli annunciò al telefono la notizia della scomparsa del regista di Roma città aperta, il 3 giugno 1977.

Una «incancellabile matrice comune» (Kezich) accomuna i due grandi maestri. Nonostante le diversità nel modo di fare cinema che a un certo punto però si imposero in maniera evidente. Le strade paiono infatti divaricarsi. Rossellini non coglierà in termini positivi la novità di un film come La dolce vita, Fellini non sarà entusiasta dell’interesse per un cinema didattico, che guarda alla storia, che ispirerà invece l’amico e maestro. La popolarità di Fellini accresce, quella di Rossellini scema.

In fondo però, i due, erano un po’ come “il gatto e la volpe”, ci ricorda Tag Gallagher, biografo di Roberto Rossellini. Lo ha fatto in un articolo pubblicato nel 2009 sul numero 649 dei Cahièrs du cinema. La storica rivista francese dedicava quell’anno uno speciale (Redecouvrir Fellini) al regista riminese: Chat e renard. Sur Fellini e Rossellini (Il gatto e la volpe. Su Fellini e Rossellini) recitava con eloquenza il titolo dell’articolo.

«Restarono certamente sempre grandi amici. Ma mio nonno a un certo punto smette di comprendere il cinema di Fellini nel vero senso della parola», spiega oggi Alessandro Rossellini, figlio di Renzo (figlio della prima moglie di Roberto, Marcella, e produttore de La città delle donne, Prova d’orchestra, E la nave va).

«Avevano preso strade così diverse da avere difficoltà di comprensione» continua il nipote di Roberto Rossellini, in queste settimane impegnato nella promozione del suo film The Rossellinis, dove affronta con ironia la saga di quella grande famiglia composta dai figli e figlie (e relativi nipoti) avuti dal “capostipite” Roberto – noto per la sua vita avventurosa, tra consorti e amanti più o meno ufficiali – attraverso i suoi tre matrimoni, tra cui il più noto è certamente quello con l’attrice Ingrid Bergman.

The Rossellinis on demand

Il documentario, presentato come evento speciale di chiusura della 35ª Settimana internazionale della critica alla Mostra del cinema di Venezia, era annunciato in uscita nelle sale a fine ottobre ma è stato bloccato dall’emergenza Covid19. Dal 20 novembre sarà perciò disponibile sulle principali piattaforme on demand.

Alessandro Rossellini, una carriera traballante da fotografo e un lungo passato di tossicodipendenza, chiama a raccolta zie e zii, cugini, nipoti, da ogni parte del mondo, a cominciare dalla più nota, Isabella Rossellini, con la sorella gemella Ingrid e il loro fratello Robin, e fa i conti con leggerezza e intensità con la figura ingombrante del nonno Roberto Rossellini: un «sovrano assoluto e noi la sua corte», così somigliante al Re Sole del suo celebre La presa del potere di Luigi XIV.

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