La “febbre del sabato sera” nella Rimini di fine ’800

Cultura

A leggere la stampa degli anni Ottanta dell’Ottocento sembra che Rimini, nel periodo di carnevale, sia pervasa da una spensierata follia collettiva: la ballomania. I luoghi dove si sgambetta al suono di qualche strumento musicale sono tanti, per tutti i gusti e per tutte le tasche. L’imbarazzo è solo nella scelta. Attraversando di notte la città durante la settimana dei veglioni – riferiscono le cronache dei giornali – «si sente ovunque quella musica che muove le gambe anche ai vecchi. Tutte feste rallegrate di maschere… e di quell’allegria che fa tanto bene all’anima e al sangue».
Il Casino Civico e il Circolo Cittadino
Evitando le piccole e chiassose festicciole dei quattro salti in famiglia o le “sbaraccate” nelle osterie con l’ausilio di un mandolino o di una fisarmonica, andiamo a ficcare il naso negli ambienti dove maggiormente si respira l’autentica atmosfera del carnevale. L’indagine non può che partire dal Casino Civico e dal Circolo Cittadino: le feste che questi due prestigiosi sodalizi organizzano nei loro saloni dorati sono così sfarzose e sorprendenti nei costumi, nella musica, nelle cene e nella scenografia da alimentare il chiacchiericcio della città per l’intero anno. A questi circoli, talmente esclusivi e snob da selezionare rigorosamente le adesioni degli associati, si aggiungono altri più disponibili ad aprire le porte ai «gentiluomini di spirito e di contegno»: la Sala Ronci, in piazzetta San Martino; la Società del Buonumore, nel sobborgo San Giuliano, e la Sala Contessi lungo la Strada maestra.
Frittelle, galanteria e brio
Al ballo popolare della Sala Ronci, riferisce Il Buon senso il 19 febbraio 1882, «si saluta il morente carnevale colle gambe» e la cura per alleviare «il trapasso dell’“agonizzante”» avviene con porzioni di «frittelle appetitosissime e vino eccellente». La Società del Buonumore non fa torto al nome che porta: l’allegria, nel rispetto della buona creanza, è proprio di casa nelle sue serate danzanti. I periodici scrivono che l’elemento caratterizzante del sodalizio è «la galanteria che vince sulla musoneria». Della «smagliante e incantevole Sala del palazzo Contessi» si occupa Italia; il 9 febbraio 1889, riferendo il suo ultimo veglione di carnevale, annota: «Ricchezza di addobbi, eleganza di mobili, profusione di fiori, sfarzo di luce, belle signore, gentili signorine, briose mascherine».
Le case dei “signori”
Ai circoli e alle sale pubbliche si aggiungono le case gentilizie dove il ballo, seppure riservato a pochi intimi, ha sempre l’onore della cronaca cittadina. Tra queste abitazioni spiccano per prestigio quelle di Battaglini, Diotallevi, Massani, Renzi, Dupré, Casaretto e del colonnello Du Lac. A casa del conte Giulio Cesare Battaglini – pettegola il cronista di Italia il 7 febbraio 1883 – troviamo «il più eletto fiore dell’aristocrazia riminese e non pochi ufficiali dell’11° Reggimento». «Non c’è carnevale che si rispetti senza una festa di ballo in casa del conte», aggiunge il periodico il 27 febbraio 1884.
L’evento clou nel teatro cittadino
Si balla e si strimpella dappertutto, ma il luogo principe dove la festa di carnevale assume i requisiti dell’evento clou dell’anno è il Vittorio Emanuele, il sommo teatro cittadino, tempio del bel canto, della musica e della prosa. In questo incantevole “contenitore” i veglioni popolari sorprendono per la loro spettacolarità. Lo sfarzo delle veglie danzanti, due o tre per stagione, attese e sospirate, sono la delizia dei cronisti, che le descrivono nei loro aspetti più gai e mondani, misurando di volta in volta l’efficienza organizzativa e il successo della serata dal numero dei presenti, dall’eleganza delle toilette, dalla riuscita della cena, dalla musica, dalle maschere e… dall’allegria. Assaporiamo il clima di questi eventi affidandoci a stralci di cronaca. «La parte più bella e compita della festa – riferisce Italia il 3 febbraio 1886 – furono le molte cene nei palchi addobbati con gusto; e tutti i palchi pieni e brillanti di signore e signorine in vesti eleganti. L’aristocrazia tutta schierata al primo ordine; in platea operai, borghesi, cittadini di ogni rango; socialisti, repubblicani, monarchici e clericali, tutti insieme, che era una meraviglia ed una contentezza in mezzo a quello splendido teatro illuminato a profusione. E l’ebrietà rimase rispettabile, e il disordine nell’ordine attraente». E ancora: «Più di 150 le maschere, graziosissime e di gusto artistico… In ogni palco allegre cene. Il popolo riempiva la fiammante platea decorata con eleganza e ricchezza di fiori e di lumi. Confuso ogni ceto, ogni grado, ogni partito… pareva una sola famiglia» (Italia, 17-18 marzo 1886). Ogni anno è un susseguirsi di meraviglie e le cronache di queste strepitose serate illustrano «il concorso straordinario di persone», «i palchi strapieni», «le tavole imbandite», «le cene briose», «l’abbondante buffet durante l’intervallo», «l’eleganza dei costumi e delle toilette», «le favolose parure», «lo scintillar di diamanti e di pietre preziose», «i bei premi alle maschere», «l’ordine», «il protrarsi delle danze fino al mattino» e «la spensieratezza».
Lo sparo, le danze e gli ubriachi
Tanti gli aspetti curiosi e inconsueti di queste serate. Ne cogliamo uno da Italia del 14-15 febbraio 1883, che ci immerge nell’atmosfera di quel tempo: «Lo sparo casuale di una pistola che turbò per qualche istante la generale ilarità». Il fatto si svolse in questi termini: «Un’allegra partita di signori era in un palco; uno di essi, nel cavarsi di tasca il fazzoletto, non s’accorse che veniva fuori anche la pistola. E questa cadde in terra ed esplose. Fortunatamente, nessuna disgrazia, e dopo qualche minuto la danza ricominciò con maggiore frenesia». In quello stesso veglione, ci informa il periodico, «due maschere furono messe alla porta perché indecenti e ubriache».

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