Farsi male per star meglio: le pratiche autolesionistiche

«Vedere il sangue che esce è come vedere la parte peggiore di me che va via. Mi sento più leggera, per un attimo è come se una bomba atomica esplodesse dentro di me. Mi fa sentire viva. Sento che il male che ho dentro sparisce per qualche attimo». Queste sono le parole di un’adolescente che per provare sollievo si procura dei tagli sul corpo, un comportamento molto più diffuso tra i giovani e i giovanissimi di quanto si possa credere. Ne parliamo con Giuseppina Correddu, psichiatra dell’U.O. Emergenza Urgenza Psichiatrica (SPDC) di Ravenna.

Dottoressa, che cos’è l’autolesionismo?

«È un comportamento intenzionale, volto a procurarsi delle ferite utilizzando oggetti taglienti come lamette, taglierini, coltelli, schegge di vetro, o graffi profondi e sanguinosi sulla pelle, o ancora ustioni attraverso bruciature di sigarette. Rientrano fra i comportamenti autolesionistici anche mangiarsi le unghie in maniera compulsiva (onicofagia) e strapparsi i capelli (tricotillomania). Si tratta di una condotta che non ha una valenza suicidaria: l’intento non è, infatti, quello di togliersi la vita, ma di stare meglio, provando un po’ di sollievo. Molti se ne vergognano e si tagliano sulle braccia o sulle gambe, in zone nascoste. Non lo fanno per attirare l’attenzione».

Quali sono le persone maggiormente predisposte all’autolesionismo?

«Sono soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti, specialmente di sesso femminile. Da un punto di vista statistico sembra che riguardi il 20-30% dei giovani che, almeno una volta nella vita, mette in atto uno di questi comportamenti, ma solo il 5% acquisisce il comportamento autolesionista, mettendolo in atto in maniera grave e ripetuta. Spesso è legato ai disturbi dell’alimentazione e/o al disturbo borderline di personalità. L’autolesionismo talora è associato all’uso di alcol o di altre sostanze e l’età di esordio si attesta intorno ai 12-14 anni. In alcune culture, procurarsi dei tagli sul corpo rappresenta un rituale di passaggio, è una prova di coraggio, dare un nuovo senso alle cose attraverso la sofferenza fisica, ma nella nostra società l’autolesionismo non svolge la stessa funzione».

Che tipo di situazioni vivono questi ragazzi?

«Vivono in contesti stressanti, in ambienti familiari conflittuali che non sanno gestire da un punto di vista emotivo, si ritrovano in situazioni nelle quali non riescono a comunicare, a esprimere le proprie emozioni. Abusi, bullismo, separazioni complicate sono alcune delle cause alla base del comportamento. In ogni caso, si tratta di persone che percepiscono un forte stress, che sperimentano stati d’animo molto dolorosi, come vuoto, anedonia, rabbia. Molto spesso senso di colpa. Sentono un subbuglio emotivo, faticano a controllare il dolore mentale, riescono però a controllare quello fisico, e quindi si procurano delle ferite che, in un certo senso, contribuiscono a ridurre il loro dolore interiore».

Tutto ciò ha un risvolto a livello biologico?

«Si attivano dei circuiti nervosi e si producono delle sostanze, come le endorfine, che riducono il dolore, e la dopamina, che è implicata nel circuito del piacere. Proprio per questo si crea un ciclo: c’è una base di disagio, accade un evento spiacevole, cresce il malessere, si ricorre all’autolesionismo, che per un periodo limitato lenisce il dolore. Con il passare del tempo si può creare una vera e propria dipendenza».

Che cosa può fare un genitore se si accorge che il proprio figlio/a ha sviluppato questo tipo di atteggiamento?

«Davanti a una bruciatura o a un taglio non si deve biasimare o criticare, ma cercare di far parlare il ragazzo, facendolo sentire al sicuro e compreso. Alcuni ragazzi lo fanno una sola volta per emulare qualcuno o perché lo hanno visto fare sui social. I social, infatti, possono avere un impatto significativo: negli anni scorsi è esistito il Blu Whale, un fenomeno social che spingeva i più giovani a sottoporsi a sfide sempre più rischiose che potevano portare fino al suicidio. D’altro canto, internet mette a disposizione anche tanti siti in cui i ragazzi possono chiedere aiuto. Fondamentale è l’informazione, sia per i giovani che per gli adulti. Molti ragazzi non sanno nemmeno perché lo fanno, si sentono soli e si vergognano a parlarne».

Come si esce dall’autolesionismo?

«Spesso il comportamento è sporadico e temporaneo e si risolve spontaneamente, ma nei casi gravi si ricorre agli interventi psicologici di tipo cognitivo-comportamentale che, secondo la letteratura scientifica, sono quelli più efficaci; quando l’autolesionismo si associa ad altri disturbi psichici gli interventi psicologici sono spesso accompagnati dall’utilizzo di farmaci».

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