Faenza, i resti del neonato preistorico rinvenuti in un cantiere di costruzioni

Un neonato vecchio di 5mila anni racconta la sua storia attraverso i resti dello scheletro. L’eccezionale ritrovamento è avvenuto in un cantiere di Faenza, durante uno scavo archeologico preventivo a un’urbanizzazione residenziale (ormai ultimata) nella zona ad est della città: è qui, dove operano le imprese edili Santuccci Costruzioni Srl e Gruppo Ritmo Srl che sono emersi i resti ossei di un bambino di 17 mesi, risalenti all’Età del Rame, detta anche Eneolitico. Si tratta del periodo preistorico di transizione tra il Neolitico e l’età del Bronzo collocato principalmente nel terzo millennio a.C., un’epoca per tanti versi poco esplorata nella penisola italiana, di cui si hanno rare testimonianze e scarse conoscenze.
Il “Bimbo primitivo di Faenza” è già una leggenda, perché la sua esistenza risale alla stessa Età del Rame di Ötzi, l’uomo del Similaum, mummificato nel ghiaccio, rinvenuto nel 1991 in alta val Senales.
Nel caso faentino, nonostante la frammentarietà dello scheletro, è stato possibile ricavare il dna (un raro aplogruppo mitocondriale), risalire al sesso e all’età. Inoltre, le arcate dentarie hanno restituito preziose informazioni sui primi anni di vita delle persone in quell’epoca, l’alimentazione e i modelli di crescita.
La scoperta consolida le tracce di insediamenti preistorici nel territorio faentino e risulta di fenomenale rilevanza soprattutto perché ottenuta attraverso le più innovative e moderne tecnologie di analisi, da cui la risonanza internazionale della notizia, dopo la pubblicazione sul Journal of archological science.
Ma come si è pervenuti al ritrovamento? Come succede in occasione di cantieri che prevedono scavi superiori al mezzo metro di profondità, è previsto il monitoraggio archeologico che, in questo caso - ma anche in altri a Faenza, basti pensare alla fornace medievale ritrovata sotto il palazzo delle Esposizioni e un’altra simile nell’area dove è sorto il nuovo stabilimento della Blacks, inaugurato pochi giorni fa – ha portato all’individuazione dei resti, la cui importanza è emersa solo oggi, a distanza di parecchi mesi, il tempo necessario a completare le analisi effettuate da un team internazionale e multidisciplinare di ricercatori. Sono stati coinvolti: Università di Bologna, Sapienza Università di Roma, Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, Università di Modena e Reggio Emilia, Goethe Universität Frankfurt, Lamont-Doherty Earth Observatory of Columbia University, Università del Salento, Università di Padova e ministero della Cultura italiano.
I risultati sottolineano il valore delle metodologie multidisciplinari utilizzate nelle scienze archeologiche che mirano a restituire dignità e individualità a persone del passato, le cui storie e origini rischierebbero altrimenti di restare sconosciute. Il professor Stefano Benazzi del dipartimento di Beni culturali Unibo rimarca i più ampi riflessi della ricerca perché «dimostra come resti, benché fortemente compromessi, possano restituire preziose informazioni sulla vita nel passato, se analizzati attraverso una strategia bioarcheologica integrata».