Faenza, amici non approvati dai genitori: la figlia manda il padre a processo

Una figlia forse un po’ difficile da gestire, nell’età dell’adolescenza, in cui basta una scintilla per far deflagrare le discussioni in casa con mamma e papà. E’ la cornice nella quale, lite dopo lite, il delicato equilibrio tra educazione e rimprovero sarebbe andato oltre, sconfinando in episodi ritenuti troppo violenti. Il più eclatante lo avrebbe ammesso lo stesso genitore, un padre di 42 anni, finito a processo per abuso di mezzi di correzione. Di fronte al rifiuto della figlia di consegnargli il telefonino, lui l’avrebbe afferrata per i capelli per impedirle di chiudersi in camera, per poi scaraventare il cellulare contro il muro facendolo andare in frantumi.
Cattive amicizie
Ieri l’uomo, assistito dall’avvocato Carlo Benini, è comparso davanti al giudice Cosimo Pedullà decidendo di rispondere alle domande del vice procuratore onorario Katia Ravioli. «Non ero violento con mia figlia - ha esordito nel raccontare l’episodio dello smartphone scagliato sul muro -. Gli schiaffi, solo in una o due occasioni». Eppure la denuncia nei suoi confronti sarebbe partita proprio in seguito alle confidenze fatte dalla ragazzina a scuola. Alle quali si è aggiunto l’intervento delle forze dell’ordine «probabilmente su chiamata di un vicino di casa», quando la giovane ha assistito allo sfogo concluso con il telefonino in briciole: «Il giorno dopo gliel’ho ricomprato», ha aggiunto. «Mia figlia non ubbidiva - si è giustificato l’uomo -. Frequentava un gruppo di amici che a me e a mia moglie non andavano bene, fumavano, erano più grandi, non volevamo che anche lei prendesse una brutta strada. Noi abbiamo una mentalità un po’ diversa e non volevamo proprio che uscisse con loro. Da lì nascevano gli scontri».«Ho perso il lavoro»
Era accaduto quindi che una sera, precisamente il 17 dicembre del 2020, il padre avesse preteso che l’adolescente gli mostrasse il telefono. Da lì, la discussione, la tirata di capelli ammessa dall’imputato in aula, e le urla udite dagli appartamenti circostanti. «Dai vicini al piano di sotto - ha riferito il 42enne - dev’essere partita la telefonata alle forze dell’ordine. In quel periodo ero anche positivo al covid. Il mese successivo sono venute le forze dell’ordine e mi hanno allontanato da casa per un mese». Trascorsi ormai tre anni da quell’episodio, le cose sarebbero profondamente cambiate, a detta dell’imputato stesso e della moglie. «Ora mia figlia ha cambiato scuola e amici, fa le superiori, è la prima della classe e ci dà retta». Quanto al processo in corso, che si avvia verso la conclusione, gli sarebbe costato il lavoro «per motivi di stress, perché - ha spiegato - non mai stato in tribunale».