Faenza, paralizzata dopo un intervento. Il chirurgo: "Evento non prevedibile"

Faenza

«Vivo da 5 anni e 8 mesi in agonia»: ad affermarlo ieri mattina in tribunale a Ravenna davanti alla giudice monocratica Federica Lipovscek è stato il neurochirurgo accusato di aver procurato lesioni gravissime a una paziente toscana in seguito a un’operazione all’ernia del disco eseguita nel giugno del 2016 in una clinica privata faentina. Dal giorno dell’intervento la donna, difesa dall’avvocato Bruno Rondanini, versa in stato di irreversibile tetraplegia, impossibilitata a muovere gli arti per il resto della vita. Secondo la versione dell’imputato, difeso dagli avvocati Fabrizio Basile e Stefano Stratta, l’intervento sarebbe stato eseguito «a regola d’arte» e senza che venissero mai sfiorati punti tali da determinare il danno contestato. Un tipo di operazione, insomma, definito «di routine», come al medico era capitato di fare centinaia di volte: a supporto di questa ipotesi anche le deposizioni di due consulenti tecnici della difesa, uno specialista di neurochirurgia e l’altro di medicina legale, anche loro ascoltati ieri mattina. In base alla loro testimonianza, l’ipotesi prevalente per spiegare il danno neurologico sulla paziente sarebbe quello di un ematoma post operatorio. Una complicanza «prevedibile ma non prevenibile» e indipendente dalla corretta esecuzione dell’intervento: per la difesa del medico ad aver influito sarebbe stata dunque una componente aleatoria, evento assai raro ma comunque possibile quando si va ad agire su parti del corpo delicate e sensibili come il midollo. Le deposizioni dei consulenti, però, si discostano non poco dalla teoria seguita dal sostituto procuratore Stefano Stargiotti, le cui domande sono state intese a comprendere se sia effettivamente da escludere la possibilità che all’origine della paralisi vi sia uno scorretto posizionamento della cosiddetta gabbietta “cage”, che solitamente viene posizionata al posto del disco intervertebrale nel corso dell’operazione. Il parere tecnico dei due medici, dopo aver visionato i referti e le immagini della risonanza magnetica eseguita successivamente, è che a comprimere il midollo della donna sia stata appunto un’emorragia verificatasi dopo il posizionamento della “cage”, quando ormai l’operatore non poteva più vedere direttamente la zona interessata. E infatti per accorgersi della nuova situazione clinica di Chiara è stato necessario aspettare il suo risveglio. Un altro dato portato alla luce dal dibattimento è che il chirurgo insieme a un collega, avrebbe erogato un contributo scientifico da 5.000 euro alla ragazza e al fidanzato, intenzionati a tentare la strada estera delle cellule staminali: una donazione che l’imputato ha giustificato come atto di «solidarietà umana». Quella che è emersa dal confronto è una difformità nell’individuazione delle cause che hanno generato la tetraplegia della donna, su cui sarà necessario fare chiarezza. Per questo motivo la giudice ha rinviato la discussione all’udienza del prossimo 23 giugno, chiedendo alle parti di concordare tra loro la produzione del materiale in esame.

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