Ex dipendente: «Costretta da Lolli a falsificare, tacevo per paura»

Rimini

Giulio Lolli, protagonista della truffa degli yacht, video-collegato dal carcere di Rossano Calabro, prende appunti e scuote la testa. La testimonianza della “tipografa” che lo accusa di averla costretta a falsificare una cinquantina di documenti rischia di metterlo nei guai ancora di più. La donna, protagonista di una drammatica testimonianza, ha infatti confermato in aula, quanto dichiarò agli investigatori. «Era lui a costringermi a fare quello che voleva, sono rimasta in silenzio perché mi sentivo minacciata». I giudici l’hanno convocata per capire meglio i rapporti tra lei e l’imputato: Lolli sostiene che fosse sua complice ben remunerata, 2500 euro a documento, più l’uso di uno yacht a disposizione della famiglia. La questione da dirimere non è da poco: a Lolli le parole della donna costano infatti l’accusa più grave, quella di estorsione. Accusa che giustificò il mandato internazionale e l’arresto in Libia. Lei ha rincarato la dose rispetto alle vessazioni alle quali era sottoposta: all’inizio da dipendente part-time. «Umiliava chi lavorava per lui: se osavi contraddirlo ti urlava: “Tu non sai chi sono io”». La donna demolisce l’idea dell’affascinante imprenditore del lusso che si aveva di lui all’epoca dei fatti e anche quella successiva del pirata-gentiluomo. Nel suo racconto Lolli è un despota che pretende di tutto e di più da chi lavora per lui. Anche delle cose illegali. «La prima volta mi disse che aveva perso il documento originale e aveva bisogno di riprodurlo perché aveva un appuntamento urgente con un cliente: dovetti chiedere un aiuto a una collega della tipografia di mio padre, l’unica che poi condividerà il mio segreto». Dalla seconda volta in poi, anche quando lei non era più a busta paga, «lui non chiede, ma ordina». La prende per i capelli, le avvicina il volto al suo e le urla sulla faccia, una volta la schiaffeggia, le parla di conoscenze in Sicilia alle quali può chiedere qualunque cosa. Le dice «Non vorrai mica che qualcuno si faccia del male?», Lolli lo dice mentre stringe forte le sue dita sulle braccia della donna tanto da farle venire dei lividi. «Mi stai già facendo del male, brutto str.…» urla lei in aula con la voce rotta. Il presidente Raffaella Ceccarelli la richiama. E lei riacquistato il controllo spiega le sue buone ragioni per avere paura. «Ero spaventata, diceva di avere amici in divisa, amici in Sicilia». Lei, sostiene, di averlo implorato di non chiederle più di fabbricare le false certificazioni. Però era terrorizzata, notò perfino l’insistita presenza sotto casa di un brutto ceffo con gli occhiali, e pensò che lo avesse inviato Lolli a mo’ di avvertimento. In un caso Lolli avrebbe addirittura impugnato un affilato tagliacarte. «Te lo dico io quando basta, diceva lui mentre giocherellava con il tagliacarte, non me lo puntava alla gola, ma mi sono spaventata». La perquisizione dei carabinieri, la fuga di Lolli per lei furono una liberazione. Solo una volta davanti al pm Davide Ercolani si sentì al sicuro, «protetta», pronta a «uscire dall’incubo». Scagionata da ogni accusa, perché costretta. Per i giudici l’istruttoria si chiude qui: respinta l’istanza dell’avvocato Antonio Petroncini di sentire altri testimoni. Discussione e verdetto il 3 febbraio.

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