Se il rosso e il nero si parlano a Rimini

Il congresso della Cgil a Rimini ha scritto una pagina di storia della politica. Vedere un presidente del Consiglio di destra, Giorgia Meloni, salire sul palco accompagnata dal segretario del sindacato Maurizio Landini fa effetto per tante ragioni.
Sono circolate nei giorni precedenti tante letture su questo evento: una sfida, una prova di coraggio, un gesto fuori luogo, un insulto alla storia. Niente di tutto ciò. Semplicemente l’incontro di due mondi lontani che si riconoscono pur mettendo in conto più scontri che punti in comune. A parte la protesta silenziosa dei peluche e il canto “Bella ciao”, intonato da un gruppo di delegati, non è successo nulla di quanto si temeva. Una prova di civiltà da parte del primo sindacato italiano e dei suoi rappresentanti. In tanti hanno espresso nelle sedi opportune la loro contrarietà all’invito. In verità Landini ha fatto bene a chiamare e Meloni altrettanto a rispondere. I toni di entrambi sono stati soft, pur rimarcando le differenze e le distanze. Incolmabili, anche.
Ma la presidente del Consiglio è a Palazzo Chigi non in conseguenza di un colpo di Stato, ma in quanto eletta dagli italiani e la democrazia va rispettata sempre, non a giorni alterni.
Se poi seguiranno incontri e confronti - anche aspri - sul lavoro e sul fisco, tanto meglio. Vorrà dire che Rimini è stata la prima tappa di un cammino e non un flash isolato.
Fatte le debite proporzioni quando Giorgia Meloni ha varcato la porta principale del Palacongressi, scortata dal servizio d’ordine della Cgil, ho rivisto Giorgio Almirante che nel 1984 a capo chino entra a Botteghe Oscure per rendere omaggio tra lo stupore generale a un grande politico scomparso: Enrico Berlinguer. Perché gli avversari non sono nemici. Si combattono, ma sempre con rispetto.

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