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La morte di Marco Simoncelli e il dolore della cronaca

Editoriali

23 ottobre 2011. Verso le 9 del mattino mi chiama il capo della redazione sportiva Alessandro Burioli. Dice che Marco Simoncelli ha avuto un incidente e che è gravissimo. Mi si ferma il cuore. Marco, col suo modo di fare così solare, diretto e spontaneo, qualche tempo prima, parlando al telefono, mi aveva detto “ormai ti considero un amico”. Non era vero, non nel senso pieno della parola. Era vero che ci conoscevamo da un po’ e che diverse volte lo avevo intervistato, però sentirglielo dire mi aveva fatto piacere. Accendo la televisione e mi è subito chiaro che lotta tra la vita e la morte. Suona il telefono e un collega di una tv nazionale mi chiede il numero dei genitori di Marco “perché tanto muore”. In quel momento lo odio. Odio profondamente il cinismo a cui può portare una professione che ti costringe a misurarti quasi quotidianamente con la morte. Per un’ora quasi mi spengo. Alle 10,45 il giornalista Paolo Beltramo, che amico di Simoncelli lo era davvero, annuncia in diretta tv che “Marco è morto”.

La saliva non scende più in gola. Mi sento smarrito e sento che è davvero dura raccontare questa notizia. Passa qualche ora e comincio ad avvertire il peso della responsabilità di raccontare come si deve questo ragazzo straordinario. In quel momento non mi è chiarissimo di quanto dolore questa perdita stia suscitando in Italia e nel mondo. Lo scoprirò soltanto nei giorni e negli anni successivi. Insieme ai colleghi di cronaca e sport lavoriamo a testa bassa e a tarda sera mandiamo in stampa 18 pagine che lo raccontano esattamente come avremmo voluto, nella sua eccezionale, umanissima, strampalata normalità. Il giorno dopo la morte di Marco, sfogliando il Corriere Romagna, mi sono sentito orgoglioso di farne parte.

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