Bialiatsky, Memorial e la battaglia per i diritti umani

Ho incrociato Ales Bialiatsky un paio di volte accompagnando le rarissime visite di delegazioni del parlamento europeo in Bielorussia. Non riconoscendo la legittimità del parlamento di Minsk, frutto di massicce frodi elettorali,  i rappresentanti dell'eurocamera, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, si recavano nell'ex repubblica sovietica per incontrare soprattutto gli attori della società civile che si oppongono a Alexander Lukashenko, l'ultimo dittatore del vecchio continente.

Bialiatsky faceva parte del gruppo ristretto di militanti per i diritti umani che resistono caparbiamente alle angherie del regime. Il Nobel per la Pace che gli è stato attribuito lo scorso dicembre è il giusto riconoscimento per un uomo che non ha mai smesso di credere che un giorno anche il suo Paese potrà godere delle stesse libertà e degli stessi diritti di cui godiamo nell'Unione europea. Il 3 marzo Ales Bialiatsky, già detenuto dal luglio del 2021, è stato condannato a dieci anni di reclusione da un tribunale di Minsk per contrabbando e finanziamento di azioni di gruppo volte a perturbare l'ordine pubblico, accuse chiaramente pretestuose e infondate. Amnesty International lo ha dichiarato prigioniero politico. Con lui nelle carceri del regime si trovano circa altri 1500 prigionieri di coscienza. Sabato 25 marzo, nel silenzio dei media italiani, si è celebrata la giornata internazionale  di solidarietà con la Bielorussia per tenere viva l'attenzione in Europa sulla repressione in corso in quel Paese. Confesso di sentirmi profondamente a disagio quando sento affermati opinionisti ospiti di autorevoli programmi alla televisione, anche di stato, denunciare la situazione italiana paragonandola a quella bielorussa. O non sanno quello che dicono o sono in malafede. Semmai mi capiterà di incontrare di nuovo Bialiatsky mi sentirò in dovere di scusarmi con lui per le affermazioni offensive dei miei compatrioti nei confronti di un uomo che sta pagando sulla propria pelle per la difesa di valori che in Italia qualcuno spregiudicatamente irride o relativizza.

Anche Oleg Orlov e gli altri otto membri di Memorial, la più antica e famosa organizzazione per i diritti umani russa, che il 22 marzo hanno subito le perquisizioni domiciliari della polizia perché sospettati di "riabilitare il nazismo", accusa infamante e priva di ogni fondamento, avrebbero bisogno di una solidarietà più convinta e invece assistiamo nel nostro Paese a una guerra di disinformazione che ha come obiettivo equiparare le violazioni dei diritti umani in Russia a quelle, presunte o reali, in Ucraina per indurre l'opinione pubblica a disimpegnarsi e non schierarsi nel conflitto in corso mettendo sullo stesso piano l'aggredito e l'aggressore, la vittima e il carnefice. Di Memorial ho il vivido ricordo di quando ho avuto l'opportunità, qualche anno fa, di visitare la sede di Mosca con l'immenso archivio dove sono state meticolosamente catalogate le schede informative di decine di migliaia di perseguitati delle purghe staliniane. E' grazie a Memorial se non si è persa la memoria di uno dei più grande crimini contro l'umanità che il regime di Vladimir Putin non ha mai condannato e sta addirittura rispolverando.

D'altronde la tragedia  dell'Holodomor, la grande carestia indotta dalle spietate politiche di Stalin negli anni trenta dello scorso secolo che provocò la morte di tre milioni di persone, è impressa e scolpita nella storia dell'Ucraina divenendone un tratto identitario. Sono molti Paesi che riconoscono l'Holodomor come atto di genocidio. Per il suo impegno incessante nel campo dei diritti umani anche Memorial è stata insignita del premio Nobel per la Pace in dicembre con Ales Bialiatsky. L'informazione è la vittima forse più illustre della guerra ibrida in corso ormai da parecchi anni fra Federazione Russa e Unione europea esacerbata, ultimamente, dal conflitto in Ucraina. I casi di Ales Bialiatsky e Memorial ci servono da richiamo e da monito per non abbassare la guardia.              

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