L'avvocato Alessi: caso Pantani, la verità è una cosa seria

Ho sempre sostenuto, peraltro in ottima e folta compagnia, che il ricordo di Marco Pantani dovrebbe rimanere confinato negli spazi di quella disciplina sportiva della quale è stato un impareggiabile interprete.

Un Campione senza eguali del ciclismo, capace di imprese che hanno suscitato l’appassionato entusiasmo delle folle. Una sorta di messia ciclistico dalle cui formidabili leve e dal grande cuore ci si aspettava, sempre e comunque, il miracolo agonistico. Se ciò che scrivo vi sembra mera od esagerata retorica, francamente me ne frego: se uno sport e chi lo pratica ai massimi livelli non è capace di suscitare emozioni forti, e ricordi che nè il tempo nè la morte possono scalfire, allora – con tutto il rispetto – dedicatevi al gioco degli scacchi.
Di tutt’altro tenore, non foss’altro anche per la professione che esercito, è la valutazione che, in altrettanto buona e competente compagnia, ho costantemente dato degli accadimenti che hanno determinato l’ultima, ed eterna, fuga dell’uomo Marco Pantani. Nell’affrontare questo contrastato argomento, motivo di una contesa ormai senza un senso e purtroppo una dignitosa fine, mi sono anche posto una domanda: se quel maledetto - e, per certi versi, infame - controllo “a tutela della salute” di Madonna di Campiglio non avesse riscontrato il superamento delle soglie di ematocrito a quel tempo vigenti, ed il Pirata avesse vinto quel Giro d’Italia che stava stradominando, di che cosa staremmo ora ed ancora a dibattere? Di un ragazzo osannato forse come nessun altro, e come nessun altro poi lasciato solo quando la vita reale, com’è per tutti, presenta i conti? Di un Campione dello sport e, finchè è durata, della sua imbarazzante ed inquietante corte dei miracoli? Di come gli stupefacenti, e la loro dimensione artificialmente parallela, possano bruciare oltre che il cervello anche le amicizie apparentemente più solide e fidate, e financo gli affetti più radicati e più cari?
Accettando il rischio che queste domande siano tacciate e liquidate come mera e meschina accademia, debbo ammettere, realisticamente e con un senso di angosciante impotenza, che non sono riuscito a darmi delle convincenti risposte. Anzi, sgomitando si è fatta spazio un’altra domanda: quell’uomo che ha scelto proprio la mia Rimini per… togliersi da ruota tutto quanto lo stava devastando, era ancora quell’entusiasmante Pirata delle montagne del ciclismo? Il meraviglioso Campione reso epico dal gesto rusticano della bandana gettata al vento? Ancora nessuna risposta e, tanto meno, una qualche fondata verità.
Il paradosso, grottesco e al contempo infinitamente tragico, è che proprio da un soggetto che si è sentenziato aver concorso alla morte di Marco Pantani – e per di più in un ambito "istituzionale" – venga utilizzata la parola verità, rimestando così nel torbido e scaricando qualsivoglia responsabilità su di un intero Ufficio Giudiziario dello Stato (il riferimento è al pusher del ciclista, sentito come teste ndr). Frasi come “… la Procura non voleva la verità” e “… la verità non la volevano…” in un Paese serio non possono lasciare indifferenti, nè devono essere trascurate. A maggior ragione dopo un interminabile “percorso giudiziario” che ha condotto a pronunce costantemente conformi sulle cause del decesso del Pirata. Prima ancora dell’uomo e del Campione, e di chi gli ha voluto bene, lo esige la giustizia.

*avvocato

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