"È solo Rimini la vera causa del nostro stato di arretratezza"

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Agli albori del Novecento Riccione è un luogo di “villeggiatura” tranquillo ed economico, particolarmente adatto per le famiglie. La giornata trascorre interamente in spiaggia, tra i capanni e sotto le tende. Non mancano, nel tardo pomeriggio, le rilassanti passeggiate tra la frescura del Viale Principale fino alla stazione ferroviaria, dove si va ad aspettare la fermata del treno e l’arrivo dei bagnanti. Ad allietare gli ozi della calura ci pensano le feste di ballo – per fare quattro salti è sufficiente un piccolo spiazzo e il suono di un organetto –, gli spettacoli teatrali e di varietà allestiti da compagnie girovaghe e poi le tombole di beneficenza, le gite in barca, il tiro al piccione e i soliti, sempre graditi, fuochi d’artificio. Per i piccoli ci sono anche i burattini. Svaghi e divertimenti semplici, da località balneare periferica, ben diversi dalle sofisticate “follie goderecce” dell’estate riminese, ma già indicativi di una comunità accogliente e laboriosa ben consapevole degli sviluppi economici che potrebbero arrivare dalla stagione dei bagni.

Ai passatempi del lido, Riccione aggiunge la piena libertà di movimento sulla spiaggia: l’arenile non è diviso in aree femminili e maschili e il bagno non ha obblighi restrittivi. Un vantaggio, che rende la mattinata in riva al mare allegra e socievole, ma che non è gradito a tutti. I “benpensanti”, per esempio, al contrario delle persone “di larghe vedute”, non ritengono la «promiscuità del bagnasciuga» un privilegio, ma un inconveniente che danneggia la borgata, perché non incoraggia l’arrivo della clientela chic. Tant’è che, per superare l’impasse della mancata separazione dei sessi, qualche incallito tutore del “buon costume” consiglia le signore per bene e le ragazze da marito di bagnarsi fuori da occhi indiscreti, il che tradotto in soldoni, vuol dire – come suggeriva già Italia nel luglio del 1886 – «alle quattro del mattino quando non v'è quasi nessuno».

Tutto questo bendidio che spumeggia tra la ferrovia e la battigia, approdato in fretta e furia con la moda dei bagni di mare, ha anche il suo rovescio. Il quartiere, infatti, che nel periodo estivo si propone come “stazione balneare di cura e soggiorno”, è cresciuto troppo disordinatamente: manca di strade e non ha un piano urbanistico che metta un po’ di assetto tra le costruzioni; inoltre i servizi pubblici e sociali presentano gravi disfunzioni; carenti e inadeguati sono i trasporti, l’illuminazione, il gas e il sistema fognario. La Riccione che «suda e lavora» e che ha difficoltà ad imbandire la tavola chiede il porto, il macello e l’acquedotto. L’acqua – trasportata da due indecenti botti – arriva col contagocce ed è imbevibile per il suo saporaccio; quella dell’acquaiolo – che la preleva dalla fonte della vicina frazione Fontanelle e la conserva in orci di terra cotta – costa un occhio della testa.

La borgata è povera. La stragrande maggioranza della popolazione – tranne quei pochi che si sono inventati lavoretti stagionali e che riescono a malapena a sbarcare il lunario – sgomita per la sopravvivenza e naviga in un mare di arretratezza sociale ed economica impressionante. Le case del paese si presentano in condizioni pietose, tutte prive dei più elementari sevizi igienici.

La colpa di questo vergognoso stato di cose i riccionesi la addebitano a Rimini, che si ricorda della frazione solamente per succhiarle il sangue con sempre nuove tasse (cfr. Avanti!, 21 gennaio 1906). Gli abitanti si sentono trascurati e qualsiasi pretesto, anche il più futile, è motivo per sfogare la propria rabbia contro il Municipio, gestito dai riminesi. Molti sono addirittura convinti che il capoluogo, sordo a qualsiasi sollecitazione, sia invidioso della vicina “stazione balneare” e ne osteggi il cammino. «Riccione è una frazione di Rimini – brontola il Giornale di Riccione il 17 luglio 1906 – ma di essa sembra sia anche una rivale; e quei di Rimini lo sanno, e la tengono addietro e cercano di ostacolarne lo sviluppo».

Un sentimento di totale emarginazione, quello percepito dalla popolazione, che lievita con gli anni fino a radicarsi nelle coscienze. E che induce non pochi riccionesi a inasprisce i contatti col capoluogo e a minacciare persino disordini pur di arrivare alla “scissione”. «Sarebbe molto meglio che i riccionesi facessero una vera agitazione per fare comune da sé – dichiara con un lessico stringato ma efficace un “paesano” su Avanti!, settimanale socialista, il 21 gennaio 1906 –. Tutto quello che abbisogna ce lo faremmo da noi!». Il ricorso all’agitazione verrà sollecitato spesso, soprattutto dopo ogni richiesta – sempre disattesa – fatta ai “riminesi” (cfr. Il Momento, 29 febbraio 1909).

Anche la Pro-Riccione, una società nata nel 1905 col proposito di rallegrare il soggiorno dei villeggianti, stanca di elemosinare i diritti della “stazione balneare”, comincia a battere con ostinazione il tasto dell’“indipendenza”. Irriducibili alfieri di questa sacrosanta battaglia sono Felice Pullè, Sebastiano Amati e Ausonio Franzoni: personaggi che accompagneranno il lungo e faticoso cammino dell’indipendenza di Riccione da Rimini e che compariranno spesso nelle nostre “Pagine di cronaca riccionese dei primi anni del Novecento”.

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