«Da direttore di scuola a profugo, ora mi avete restituito la libertà»

SANTARCANGELO. Tante persone in cerchio sulle panche in legno e le sedute in fieno a richiamare il titolo “Non sol(n)o balle… storie vere di immigrazione”, quattro stranieri arrivati in Italia con i gommoni o i corridoi umanitari a raccontare la loro “rinascita” in Romagna. Sotto la regia della presidente del consiglio comunale Cristina Fabbri, la Festa dell’Unità di Santarcangelo ha ospitato martedì sera una bella pagina di integrazione e inclusione grazie all’incontro pubblico moderato da Maurizio Bartolucci della Fondazione Francolini e a un aperitivo etnico-romagnolo che ha suggellato l’iniziativa.
In Italia con i gommoni
«Voi mi avete aiutato e salvato la vita, io sto studiando perché voglio essere una persona capace di contraccambiare il bene ricevuto. Anche in Italia ci sono persone buone e cattive, sono qua perché questo è il mio destino, il mio karma: la mia vita è qua», apre il suo cuore Gando, che cita la parola “vita” decine di volte in pochi minuti quasi a ribadire quanto grande sia stato il timore di perderla. Fa parte del progetto Sprar ed è arrivato a Santarcangelo grazie alla Cooperativa Cento Fiori come Alagie, che gli fa eco: «Sono qui dal 26 maggio 2017 e le due parole di cui voglio parlare sono discriminazione e razzismo sono: siamo tutti uguali, perché allora c’è la discriminazione? Tutti siamo uguali, uguali» dice, interrotto dalle lacrime che gli scendono sugli occhi e lo costringono a fermarsi. Troppa emozione.


In fuga con la famiglia
Sheik Abdo ha qualche decina di anni in più dei due ragazzi di colore che lo hanno preceduto, è siriano e a differenza loro vive all’ombra del Campanone con la famiglia grazie ai corridoi umanitari. E’ ospitato in Parrocchia e la sua testimonianza “aiutata” da una giovane volontaria di Operazione Colomba che gli fa da traduttrice assesta più di un pugno nello stomaco. «In Siria ero direttore di una scuola e quando nel 2012 sono dovuto scappare in Libano per la guerra nel mio Paese, da profugo ho costruito una scuola fatta di container per cercare di dare un’istruzione gratuita a bambini siriani e un ospedale per fornire loro cure: in Libano ci sono quasi due milioni di siriani e questo mi ha portato a essere imprigionato più volte e a ricevere ripetute minacce di morte dalle varie fazioni. E’ per questo che nel novembre 2018 sono venuto in Italia grazie ai corridoi umanitari. Potrei parlarvi di bombe, guerra, case distrutte, donne stuprate che in Siria continuano a esserci, cose che forse conoscete bene: ma voglio dirvi che lì e in Libano tante persone credono ancora nell’amore e nella pace e anche tanti ragazzi italiani ci credono tanto da vivere nei campi profughi a rischiare la loro di vita come fanno i volontari di Operazione Colomba. Oggi qui c’è mia sorella che passa ogni estate nella scuola in cui io non posso tornare a educare questi giovani profughi», ha detto, proseguendo con ancora più forza: «In patria non ho voluto combattere con la Russia e l’Iran contro le milizie, tanti uomini e donne scelgono di non farlo inseguendo la pace e muoiono o sono in prigione: si muore ancora di febbre o in ospedale, io sono vivo perché ho trovato Operazione Colomba, la Comunità di Sant’Egidio e il Comune di Santarcangelo che mi fanno credere ancora nella pace. Voi mi avete ridato la libertà e la forza di continuare a combattere per il mio Paese».
Niente documenti ma codici a barre
Ed eccola la “sorella”: «Non lo sono, ma mi sento tale: sono un’insegnante di scuola primaria e da tre anni vado nella sua scuola in Libano perché la prima volta che l’ho vista mi si sono aperti il cuore e la mente vedendo che oltre alle materie classiche si insegna l’educazione alla pace nella speranza che si possano cambiare le cose con un nuovo sentore collettivo». Giulia è invece una giovane volontaria di Operazione Colomba: «Da anni viviamo in zona di conflitto, dove non portiamo soldi, medicine o altro ma quello che c’è bisogno di fare. Stiamo in tenda al confine fra Libano e Siria, in uno Stato che non considera i siriani neanche profughi, ma aspiranti profughi. I campi di quella zona non li auguro a nessuno, le donne muoiono di parto senza cure, le persone non hanno documenti ma codici a barre, per questo vedere quanto è indomabile Sheik ci ha dato uno spiraglio di pace». A chiudere il cerchio la testimonianza dell’ex direttore della Caritas Mario Galasso che da quattro anni ha allargato la sua famiglia ospitando Mamadou.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui