Ogni tanto anche la nostra categoria, dei giornalisti si intende, dovrebbe fare un esame di coscienza. Siamo sicuri di aver pubblicato il meglio del pubblicabile e di aver censurato il peggio del censurabile?
Una riflessione dopo l’ennesimo servizio televisivo sui rifugi del boss Matteo Messina Denaro. Un mafioso che si è macchiato di ogni tipo di crimine e, come ha rimarcato il vescovo emerito di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, non merita troppa pietà. A tutto però c’è un limite. Il fatto che a casa del “padrino” siano stati trovati una parrucca, una scatola di preservativi, uno scaffale pieno di scarpe, sarà importante per gli investigatori ma non per noi.
Un conto è descrivere le armi, un altro gli effetti personali.
Da più di un secolo sulla prima pagina del New York Times è stampato il motto “All the news that’s fit to print” coniato dal direttore Adolph S. Ochs nel 1896. La frase può essere tradotta così: “Tutte le notizie che vale la pena stampare”.
Non a caso sono state definite le sette parole più famose del giornalismo americano.
Chi ha visto “The Post” di Steven Spielberg ricorderà la scena della lettura della sentenza della Suprema Corte salutata dall’applauso dei cronisti: “La stampa deve essere al servizio dei governati, non dei governanti”. Il film racconta la vicenda della pubblicazione di documenti top secret (Pentagon Papers) e le bugie della Casa Bianca sulla guerra in Vietnam.
Una storia di informazione coraggiosa, non di gossip.
Morale della favola: ogni palazzo ha il diritto di comunicare ciò che ritiene più opportuno all’esterno. Ma le redazioni non sono obbligate a pubblicare. E per le non notizie c’è sempre un cestino sotto la scrivania che attende un foglio appallottolato.