Il diario dalla zona rossa di Medicina della scrittrice Caterina Cavina

Imola

di CATERINA CAVINA 6.30, suona la sveglia. Interrompo la melodiosa suoneria che mi accoglie in un lunedì mattina dopo una domenica di lavoro. Lo schermo s’illumina, Facebook, primo post della giornata: “Siamo in zona rossa!”, scrive allarmata una donna di Medicina. “Strano, credevo lo fossimo già”, penso. “Zona rossa come Codogno!”. Altri post: Quarantena. Militari. Posti di blocco. Non si passa. Medicina e Ganzanigo chiuse dall’esercito con mezzi blindati. Noi di Buda possiamo passare. Alle 5.15 del mattino non sono riuscita ad andare a lavorare a Villa Fontana, mi hanno fermato. Mio marito è andato, è passato per Buda. Io ci sono andata, non sapevo nulla, sono a Finale Emilia ora, ho preso via San Paolo come sempre e poi sulla San Carlo, non c’erano blocchi, ma ora se torno indietro posso uscire domani? Avete visto il video del sindaco? Hanno fatto tornare indietro pure degli infermieri del Sant’Orsola e degli altri ospedali! Ora sono davanti al Comune, vogliono sapere cosa devono fare. Ho mia madre malata, abito fuori Medicina, se entro poi posso uscire? Che faccio? Lascio mia madre malata sola dentro o i miei figli piccoli sani fuori? Abito al Graffio, a cinquanta metri dalla mia ex moglie e dai miei figli, ma non posso passare, l’ho saputo stamattina alle 8, su Facebook, so che c’è gente che lo sa dalle 3. Abito a 100 metri dall’azienda dove lavoro, ma non ci posso andare, mi hanno fermato ma come è possibile? E’ assurdo. Speriamo tutti passi presto. Speriamo arrivi l’estate. Speriamo nel caldo. Tutto andrà bene. Tutto andrà bene?
Tutto prima del caffè. I miei gatti hanno fame, do loro da mangiare e vado al posto di blocco a verificare di persona, grazie ai social so già esattamente dove mi fermeranno, dovrò ben dirlo al datore di lavoro che sono stata fermata. Sono un operatore socio sanitario in una casa di riposo di Lugo (Ravenna), la situazione da noi è delicata, sono state prese delle cautele, gli ospiti non possono scendere nelle zone comuni, stanno in camera, alzati e curati e tutto, ma non ci sono volontari, parenti, nessuno, non c’è quell’ambiente umano che rende vivibile la vita in luoghi dove si deve per lo più aspettare.
Al posto di blocco i militari sono gentili, ma agitati, non sanno bene cosa fare con noi sanitari. Si parla di un permesso del sindaco, ma non si sa se va bene. Mi mandano indietro.
A casa comincio a telefonare: datore di lavoro, medico di base, nessuno sa cosa si deve fare in questi casi. La quarantena non è una malattia e io comunque non sono in quarantena, sono in zona rossa, ma non in quarantena. Provo a chiedere al Comune, al telefono non rispondono, nemmeno alle email, situazione di emergenza. Il modulo che hanno messo online da far compilare al datore di lavoro sparisce poche ore dopo.
“La Regione spinge perché gli Oss di Medicina stiano a casa”, mi spiegano via WhatsApp dall’amministrazione comunale alle 19.30 di sera. Mi sento per la prima volta smarrita, tutto giusto se è per noi, per il nostro bene, ma allo stesso tempo mi chiedo se la mattina del 13 agosto 1961, quando i berlinesi videro l’esercito scavare per terra e mettere filo spinato abbiano provato le stesse cose.

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