Il diario della scrittrice Caterina Cavina dalla zona rossa di Medicina

Imola

di CATERINA CAVINA Svegliarsi già stanchi. È una cosa che succede quando si è in depressione, io ne so qualcosa. So anche cosa vuol dire rialzarsi, godere della luce del sole, delle passeggiate. È ironico ripiombare nella stessa condizione da “sani”. Arrivano subito notifiche da Messenger, prima ancora di prendere il caffè.
«Sono molto preoccupata per i miei amici, sono qua per lavoro con il mio compagno e mio figlio ma ci hanno cancellato il volo e la Farnesina non risponde! Tutti mi dicono di stare qua, ma ho una nonna di 85 anni, lei è tranquilla e dice che sta bene e di non partire, ma noi invece vogliamo tornare e se poi dura a lungo? Tra tre mesi finisce la validità del visto…», mi scrive una medicinese in Florida.
Suona il telefono. «Cate come va? Sei una forza! Continua a tenerci informati!». È una mia amica, lei sta fuori dalla zona rossa, a Crocetta. Sentirmi dire che sono una forza quando comincio a percepire il piombo nel cuore e respiro affannato è un po’ comico. Mi faccio coraggio. Sorrido al vuoto. «Hai sentito cosa dicevano ieri dalla D’Urso? A Medicina il virus è più aggressivo che nel resto d’Italia! Ma siamo matti a dire queste cose in TV, ma non pensano alla paura che fanno alla gente? Senti hai bisogno di qualcosa? Sto facendo dei tortellini ce li scambiamo al posto di blocco!». Ecco, buona idea.
Sento l’ansia salire. Respira. Respira. Respira. «Chiedi più mascherine, noi non ne abbiamo e non usciamo per fare la spesa». Risposta immediata di un altro utente: «A noi non servono, servono ai sanitari». «Mia madre è sola in casa a Medicina, noi siamo fuori, e parla tutto il giorno alla foto di mio padre morto da poco, non per il Covid». Mi dice una mia amica. «Non sappiamo cosa fare, se chiedere un permesso per farla uscire, lei ha paura per noi, poi ha il canarino in casa». «Per favore – mi scrive un’altra persona –, non sento mia madre e mia sorella da anni, abbiamo litigato e non ci parliamo più, non so nemmeno come rintracciarle ma so che sono a Medicina, se sai qualcosa di loro dimmelo, si chiamano…». «Ehi, come stai? Eravamo al liceo assieme, ricordi? Ora vivo in Brasile con moglie e figlia, siamo un po’ spaventati ma stiamo prendendo precauzioni, tu tieni botta!». «Cate ma lo sai se Tigotà è aperto? Dovrei comprare dei detergenti che non ci sono nei supermercati». «Ma perché non fanno i tamponi a tutti? Cate, chiedilo, chiedi perché non fanno i tamponi a tutti». «Lo sai che i moduli per passare sono cambiati di nuovo? Ormai devi avere con te tutte le versioni possibili a seconda delle forze dell’ordine che incontri». «Voglio dirti che ti voglio bene e vorrei abbracciarti». «Ti penso». «Ti voglio bene». «Coraggio».
È strana la gente. Da una parte la reclusione unita alla paura creano una brutta sindrome, fanno diffidare di tutto e tutti. Se uno chiede le mascherine è un paranoico, se non le indossa un criminale. Se suona ai balconi è un rompiscatole, esibizionista, ma se è troppo serio… «cavolo non sai scherzarci un po’?».
Rispondo ai messaggi, pulisco casa con candeggina, si sa mai, scrivo, mangio, faccio dirette Facebook e TV, rispondo ad amici, familiari, sconosciuti e arrivano le 19.30. Basta, esco. Faccio una passeggiata accanto a dei silos abbandonati vicini a casa mia. Ieri notte una mia conoscente mi ha scritto: «Sono al ventesimo giro attorno al palazzo, non riesco a stare in casa, sto male, è l’ansia, quindi cammino e cammino, ma non mi allontano». Anche lei è sola in casa, come me. Un uomo di 55 anni è morto solo in casa, non si sa se è Covid, ma la storia è triste lo stesso, sono andati a tirarlo fuori i pompieri. Forse è da quella notizia che mi è salita l’ansia. Non ho paura di morire sola, tecnicamente non lo sono nemmeno, ma ho paura di diventare una pazza intollerante anche io, questo sì, e di perdere la mia umanità. Faccio un giro in auto, vedo il posto di blocco, le auto della polizia con le luci blu sopra, i militari fermi. No, no, non è un posto adatto per scambiarsi un cartoccio di tortellini. Guardo il campanile di Medicina, in alto c’è la croce illuminata. La mia voce interiore, quella che mi ha sempre salvato, si mette a parlare: «Non ti metterai a pregare ora? Proprio tu? No eh…».

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