Il diario di Caterina Cavina. Fuori dalla zona rossa, e ora?

Imola

di CATERINA CAVINA “Cosa si potrà fare? Noi sanitari potremmo passare? Le banche e le poste apriranno? Potremmo andare nelle frazioni? A Villa? I militari se ne andranno? E se è un male? Se ricominciano i contagi? Erano appena iniziati a calare. Che vuol dire essere come Rimini e Piacenza? Arancioni?”
Rewind. Mattina. Mi alzo e mentre bevo il caffè la domanda sui social medicinesi è una sola: usciremo dalla zona rossa?
“Ma cosa vi cambia? Dobbiamo stare in casa! Tanto non possiamo uscire comunque dal nostro comune”, tuona un utente un po’ scocciato. Posso rispondere: per qualcuno cambia, eccome.
Dopo pochi minuti, puntuali come una preghiera, ricevo almeno quattro vocali da un’infermiera mia amica. Mi chiama sempre quando riesce a “entrare”. Non vuole che il suo nome si sappia e nemmeno quello dell’associazione per cui lavora, viene da fuori Medicina per offrire cure palliative ai malati terminali di cancro, è insomma uno di quegli angeli che arrivano con la siringa di morfina quando il dolore è troppo. Ora fa più fatica a stare vicina ai suoi pazienti di Medicina. “Ogni giorno è un terno al lotto. Ieri dovevo fare un prelievo di sangue, ero con il medico, sulla macchina della mia azienda, con loghi e tutto, quindi ben riconoscibile e mi facevano delle storie: “No questo tesserino non va bene, nemmeno l’autocertificazione, no questo documento è sbagliato…”. Ha la voce rotta dal pianto. “Alla fine siamo passati, ma in ritardo, dipende sempre da chi incontri, i carabinieri sono più gentili dei militari dell’esercito, ti puoi imbattere in quello che ormai ti conosce e fa passare con un gesto, oppure quello che pur sapendo chi sei fa il pelo e contropelo a documenti che ha già visto mille volte. Un giorno non mi volevano far entrare perché secondo loro il mio pass non era valido e avevo i familiari del paziente che mi chiamavano… stava così male che rantolava. Un’altra volta invece non mi volevano fare uscire! Dovevo farmi fare una certificazione apposta per l’uscita!”.
Che la questione del passaggio ai varchi sia machiavellica e tragicomica come nel film “Non ci resta che piangere” (“un fiorino!”) è ormai una barzelletta amara che i medicinesi raccontano. Tragica per chi deve prestare servizi sanitari. Un’altra cosa: gli ambulatori dei medici di base sono chiusi al pubblico. “Le ricette le facciamo tutte al telefono, come le visite, poi se c’è qualcuno di molto grave ovviamente lo invitiamo a venire qua, oggi in un turno di otto ore ho fatto venire solo due persone”, mi dice il mio medico.
Penso alle famiglie spezzate dei primi giorni. I figli rimasti fuori, magari in una frazione a pochi chilometri, separati dai genitori anziani e soli, preoccupati, che possono solo raggiungerli per telefono. “L’Asp ci è venuta incontro – racconta Valeria Ventura, una medicinese che ha lasciato i genitori anziani e una sorella disabile dentro la zona rossa – . Faccio la spesa settimanale per i miei, poi stabilisco un appuntamento al varco con alcuni volontari di associazioni collegate all’Asp, consegno il tutto, anche dei libri a volte, e alla sera li chiamo per sentire se hanno gradito cosa ho preso per loro. Questo servizio ora è fondamentale, non smetterò mai di ringraziarli”.
Passa la giornata e arriva appunto la frase di Bonaccini, quella che ci promette di diventare come Rimini e Piacenza. Non so è una cosa positiva del tutto, non so nemmeno se io potrò andare a lavorare, e cosa significa dopo le mille ordinanze essere zona arancione. Chissà se da domani la mia amica infermiera potrà entrare a Medicina senza dover sudare freddo ai posti di blocco, o se il mio medico vedere i suoi pazienti di persona e se la signora Valeria potrà portare personalmente la spesa si suoi parenti. Chissà.

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