Denis Curti: "Dove sta andando la fotografia? Venite al Si fest"

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Preceduta dall’importante anteprima aperta al pubblico fino al 5 agosto della mostra “Underground (Revisited)” di Marco Pesaresi, l’edizione del trentennale di Si fest ha scelto, in quest’epoca dove la visione appare quasi innalzata a liturgia sociale, porsi domande sul domani, sulle scelte e prospettive, della fotografia. Quale domani? Lo abbiamo chiesto al direttore artistico Denis Curti, autore del volume “Capire la fotografia contemporanea. Guida pratica all’arte del futuro” (Marsilio Cartabianca).

«Il progetto del festival – sottolinea Curti – ha un obiettivo che non si separa certamente dalle riflessioni sull’attualità. Non avrà un tono celebrativo per questi 30 anni di storia, ma vorrà piuttosto essere occasione per ragionare, per tracciare linee che ci permettano di comprendere il futuro della fotografia. Chiameremo pertanto a confronto su questo tema, ciascuno con una mostra delle rispettive rassegne, i direttori di quelli che insieme a Si fest sono i più importanti festival italiani di fotografia: Reggio Emilia, Lodi, Lucca, Cortona. Volete sapere dove sta andando la fotografia? Venite a Savignano e lo saprete».

Tutti si appropriano del linguaggio delle fotografia. Il linguaggio visivo permea ovunque la realtà. Fino a che punto si sente però la mancanza di una «alfabetizzazione visiva di massa»?

«Come pose in evidenza Davide Ferrario su La lettura in “Dieci fotografie per 10 settimane” – ovvero quelle immagini che sono diventate delle vere icone dell’anno della pandemia (come la foto della infermiera vinta dalla stanchezza,o del Papa solo in Piazza San Pietro) –, quegli scatti sono di tutti. Nessuna di quelle foto era stata scattata da un fotografo professionista, ma sono immagini che appartengono al momento. Come l’intelligenza artificiale, così esiste una linfa che alimenta anche un’intelligenza delle immagini, che in molti casi appare come il frutto di una conoscenza e una consapevolezza maggiore di quella degli scatti professionali. Non è il linguaggio in sé a essere in crisi bensì l’uomo e la sua società».

Ci sono troppe fotografie al mondo? Lei ha scritto: «Ormai è tutta una questione di autori e di autorevolezza, occorre essere consapevoli di ciò che ci circonda, per raccontarlo e lasciare una traccia».

«Ritengo che la storia della fotografia sia un investimento su l’umanità. Nessun linguaggio artistico è riuscito come la fotografia a raccontare l’umanità in modo più armonico. Nessuno è più adeguato di quell’autore che riesce a raccontare delle storie perché si pone l’obiettivo di essere uno storyteller, perché piega lo sguardo a questo tipo di intenzionalità progettuale. Abbiamo pensato alla nuova edizione di Si fest come a una riflessione sul futuro della fotografia al di là dei temi filosofici, su una duplice linea: da un lato un festival al femminile: “Futura”, dall’altro soffermandoci sul tema della salvaguardia dell’ambiente, dedicando ad esso importanti mostre autoriali come quelle di Arno Rafael Minkkinen, dove l’uomo diventa esso stesso natura, e della reporter antartica Esther Horvath, autrice di Polar night».

La fotografia è ancora modo di vedere il modo e di interagire con esso? Lei sottolinea come occorra «una logica estetica, politica, etica». Una sfida che definisce «impegnativa».

«Penso ad esempio, a Mario Giacomelli che non ha mai voluto passare al professionismo eppure è uno dei più grandi fotografi del mondo, e così Migliori, Ferroni e persino Lartigue che divenne professionista a 69 anni. Il digitale contiene le potenzialità di un nuovo “rinascimento della fotografia”, affidato ad autori che sappiano unire etica ed estetica. La fotografia è di tutti e di nessuno e, per fortuna, ha molte facce. È un linguaggio democratico e c’è spazio per chiunque. La buona fotografia non è necessariamente legata al mercato».

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