Alfonsine, delitto Minguzzi, l'attacco della famiglia: "Indagini insabbiate"

È la foto simbolo di tutto il processo: il momento in cui l'avvocato di Rosanna Liverani, Luca Canella, terminato il proprio intervento alle battute finali del procedimento per l'omicidio del figlio, la consola con una carezza. Il legale si rivolge alla corte d’assise, parla alla pancia dei giudici popolari e descrive la madre di Pier Paolo Minguzzi come «una donna straordinaria rimasta seduta davanti a voi per oltre un anno», che 35 anni fa perse il terzogenito, carabiniere di leva 21enne, studente di agraria, «barbaramente sequestrato e assassinato». È questo l’incipit che ieri ha portato alla richiesta di risarcimento pari a 3 milioni di euro (con provvisionale di 250mila euro) per la famiglia Minguzzi. Schierati accanto alla signora Liverani, anche i figli Giancarlo e Anna Maria, fratello e sorella della vittima, difesi dagli avvocati Elisa Fabbri e Paolo Cristofori, che si sono associati alla richiesta di condanna all’ergastolo avanzata dal sostituto procuratore Marilù Gattelli per gli ex carabinieri di Alfonsine Orazio Tasca e Angelo Del Dotto, e per l’idraulico del paese Alfredo Tarroni.

Delinquenti dilettanti

«Delinquenti sì - li battezza Canella -, professionisti no». A muoverli, un movente economico quantificato nei 300 milioni di lire che sarebbero serviti a coprire i debiti di Tarroni, e la smania di auto nuove dei complici, allora poco più che ventenni. Ma «nessuno di loro brillava per avere una mente raffinata», rimarca l’avvocato Cristofori. E così, fallita la prima estorsione, si fecero arrestare in flagrante nel luglio del 1987, appena due mesi dopo i fatti, per l’estorsione ai Contarini, altra ricca famiglia di Alfonsine. Il legale analizza il contesto storico della località in quegli anni: «Un piccolo paese di provincia, dove episodi di questa gravità non erano mai accaduti prima e non si verificarono più». Già all’epoca c’erano «così tanti elementi elementi di contatto tra le due vicende», continuano i tre difensori. Eccoli riassunti: la stessa somma richiesta, l’interesse per le abitudini delle famiglie attenzionate, l’accento delle chiamate estorsive, siciliano come quello di Tasca, reo confesso di essere il telefonista del caso Contarini, e l’errore ricorrente nello storpiare i nomi. La sua parlata fu riconosciuta già allora: “ Questa è la voce del carabiniere mio”, disse il vicecomandante della Stazione, Mario Renis. «Il loro arresto - incalza Canella - avrebbe evitato il secondo episodio estorsivo e la morte del carabiniere Sebastiano Vetrano», ucciso nel conflitto a fuoco durante l’agguato a Taglio Corelli, colpito a morte da Del Dotto con la pistola fornita da Tarroni.

Indagini insabbiate

Lapidario il commento in aula: «Un cold case è sempre frutto di un’indagine imperfetta». I legali della famiglia puntano il dito contro quei carabinieri che insabbiarono le indagini e che, chiamati a deporre nel corso del processo, si sono trincerati dietro amnesie e ricordi offuscati. Tra questi il maggiore Giorgio Tesser, al tempo inviato dall’Anticrimine di Bologna, e il rapporto con il quale escluse la responsabilità degli imputati «sulla base di una perizia fonica nemmeno eseguita». E ancora, il capitano Vincenzo Talarico, che sostituì al comando della Compagnia di Ravenna il collega Antonio Rocco senza nemmeno un passaggio di consegne, concentrando tutte le indagini per un anno e mezzo sul sedicente Alex, al secolo Enrico Cervellati, per concludere che né lui, né le lettere che inviava alla fidanzata di Pier Paolo, Sabrina Ravaglia, avevano a che fare con il delitto. E ancora, il brigadiere Stefano Giubbettini, nell’87 accasermato ad Alfonsine, descritto dall’avvocato Cristofori quasi come «un quarto uomo», come «una persona che ha volutamente taciuto per non ammettere di avere avuto un ruolo di favoreggiamento degli imputati». Era in caserma la notte del rapimento, e «avrebbe potuto spalleggiare Del Dotto, che era in servizio come piantone». Il 30 aprile, cioè il giorno prima del ritrovamento del cadavere, fu visto nell’auto con Tasca in via Portorose, la strada che conduceva al casolare di Ca’ Vaccolino in cui Minguzzi fu portato prima di essere ucciso e gettato nel Po di Volano. Durante il processo ha detto sotto giuramento che stavano andando al casinò di Venezia, ma dai registri non c’è traccia del loro accesso. Ecco perché nei suoi confronti il sostituto procuratore Marilù Gattelli ha chiesto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza. E che dire aggiunge l’avvocato Fabbri, dell’«espressione infelice, “ loro non c’entrano”» rivolta dal pm dell’epoca ai familiari di Minguzzi il giorno del funerale di Vetrano, riferendosi al presunto coinvolgimento degli imputati nel sequestro di Pier Paolo: «Rispondeva probabilmente a un disegno che qualcuno aveva già messo in atto».

«Evitabile la morte di Vetrano»

All’epoca, dunque, non si volle andare avanti, dicono in coro i tre legali. Come mai? «Perché dopo la sparatoria del luglio ‘87, i responsabili delle indagini, carabinieri e magistrati, realizzarono di avere sottovalutato o non considerato gli indizi che già erano emersi, consapevoli che la loro superficialità aveva fatto sì che oltre al povero Pier Paolo Minguzzi perdesse la vita un altro carabiniere». Lo si è capito - aggiungono - dalle parole del brigadiere Di Munno, che disgustato dalla gestione delle indagini, lasciò l’Arma: non solo il suo dossier non fu mai trasferito alla Procura; quando cercò il confronto con i vertici del comando provinciale bizantino, la risposta fu questa: “ Brigadiere, non ha ancora capito che la m. più si gira più puzza?”. Non solo gli imputati. Con loro, nel calderone di uno scandalo sepolto per 35 anni, finisce buona parte dei testi del processo: «A quella donna - chiude l’avvocato Canella indicando l’anziana assistita - dovrebbero tutti chiedere scusa».

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