Debutta la “vita nuova” di Castellucci, un modo migliore di stare insieme

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BOLOGNA. La città di Bologna invita Romeo Castellucci (1960), cofondatore della Societas Raffaello Sanzio di Cesena. L’occasione è il cartellone di Art City Bologna 2020 per il quale il regista e autore dai molti premi internazionali allestisce “La vita nuova” in prima nazionale, progetto speciale della manifestazione che affianca l’annuale Arte fiera.
Lo spettacolo debutta nel nuovo spazio Dumbo domani alle 19 e alle 21, con replica sabato 25.
Arriva in Italia dopo il debutto al Kanal-Centro Pompidou di Bruxelles nel 2018, all’interno di una vasta area di lavoro (ex Garage Citroën) prossimo polo culturale europeo; dopo essere stato presentato anche in Danimarca, Parigi, Vienna, Atene, prossimamente a Mosca. A Cesena l’ultimo spettacolo del regista è stato “Giudizio, possibilità, essere” nell’ottobre 2013.
Romeo, quale è stata la spinta visionaria di questa “Vita nuova”?
«La prima suggestione è venuta dalla committenza belga, che mi ha chiesto di realizzare un’azione all’interno del Kanal. Era un antico deposito, il più grande centro di smistamento Citroën del Belgio. La vista di quell’enorme garage mi ha spinto a pensare a una performance-installazione con automobili. Mi sono poi reso conto che l’edificio era in un punto cruciale della città, dove la vecchia Bruxelles incontra Molenbeek, quartiere di forte immigrazione per lo più africana. La memoria del luogo, a cui sempre mi collego, mi ha spinto a lavorare con elementi preesistenti, come le automobili, e con attori di origine africana. Da lì è nato un lavoro anche metaforico».
È vero che si richiama all’idea utopistica del filosofo Ernst Bloch?
«Bloch è stata una scoperta; capita, durante le fasi di elaborazione di un progetto, di scoprire materiali preesistenti che ti riguardano. Insieme a Claudia (Castellucci, sorella di Romeo ndr) che ha scritto il testo dello spettacolo, abbiamo verificato che il filosofo aveva detto cose simili; ma non per questo è un lavoro che nasce da Bloch, non è così».
Una novità, rispetto ai suoi procedenti spettacoli, è l’inserimento di elementi artigianali che definisce “decorativi”: qual è il collegamento?
«Mi avevano colpito oggetti di artigianato che avevo visto da uomini neri in abito bianco che mi ricordavano certi predicatori americani. Ragionando con Claudia ho pensato a un sermone come momento centrale del lavoro. Uno di questi uomini sale su un’automobile e parla a noi. Il suo discorso è organizzato intorno al primato, secondo lui, dell’artigianato sull’arte, che avrebbe una capacità di incidere nella vita reale in modo più profondo».
La decorazione si distacca qui da un’esteriorità superficiale?
«L’uomo sostiene che soltanto attraverso l’ornamento e la decorazione si può migliorare la povera vita quotidiana. Fa degli esempi che nascono anche dalla concezione femminile della materia; poi il discorso si allarga, diventa filosofico, ed è a questo punto che ci sono punti di contatto con Bloch, dopo una serie di azioni e di gesti che si potrebbero definire parabolici, nel senso di una parabola».
Come si svolge l’azione?
«In un ambiente notturno ci sono automobili coperte, quasi un gregge di pecore con pastori che le vegliano. Il garage è una delle immagini più banali della nostra esperienza quotidiana, siamo circondati da automobili parcheggiate, sono oggetti antiartistici. Eppure, proprio da un oggetto e da un luogo così “sbagliato” e banale, si può innescare una “Vita nuova”. Anche dalla banalità delle cose può emergere un atteggiamento filosofico di potere, teso a trasfigurare la povertà dell’esperienza in qualcosa di bello e di ornato».
L’ornamento può generare una vita nuova?
«In questa possibilità c’è anche un paradosso: mettere in crisi l’arte per valorizzare l’artigianato. Non è una polemica nuova; già il preraffaellita William Morris disegnava carte da parati per le case degli operai tessili, per migliorarne la vita quotidiana. Lo storico dell’arte Aloise Riegl non faceva differenza tra un tappeto e un quadro di Caravaggio. Nel nostro lavoro viene alla ribalta un oggetto artigianale, che è un tappeto circolare, a rivendicare la potenza dell’oggetto decorativo sul mondo. Da parte mia registro una grossa debolezza dell’arte oggi; è noiosa, prevedibile, è fondamentalmente un déjà vu incredibile».
Nella rivendicazione della decorazione c’è un’idea utopistica?
«Sì, ma non ha niente a che fare con la speranza; l’utopia esiste, è in atto, è un altro luogo. Qualsiasi luogo, il più brutto e il più banale, se lo si vuole, diventa un altro luogo, cioè un’utopia. L’esempio calzante è il nostro garage di macchine che si trasforma in contesto estetico di grande raffinatezza. L’utopia non è una speranza, perché è già possibile vedere il bello attraverso l’ornamento. La decorazione, nel nostro caso, è un atteggiamento spirituale che pensa al corpo delle persone, e al senso di comunità».
Oltre alle auto chi sono i protagonisti?
«Sono 5 uomini giganteschi, li ho voluti più alti del pubblico per soverchiare, a un certo punto rovesciano pure le macchine. È un gesto simbolico, volgere le ruote al cielo consente all’auto di percorrere vie celesti. Il gesto si fa dunque poetico».
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