Davide Enia a Forlì con "L'abisso"

Sono giorni di lutto, questi, per l’Italia. O almeno, per una parte di essa. L’assassinio di Willy Montiero Duarte mette in crisi per l’ennesima volta la consolatoria e rassicurante visione di noi stessi come “italiani, brava gente”… E proprio quando i social si dividono e c’è anche chi plaude all’omicidio di Colleferro, Accademia Perduta/Romagna Teatri che lo co-produce, propone stasera (ore 21.30) all’arena San Domenico di Forlì il toccante monologo “L’abisso”, che Davide Enia ha tratto dal suo omonimo romanzo “Appunti da un naufragio”, vincitore del Premio letterario internazionale “Mondello”. Lo spettacolo dal canto suo ha meritato il Premio Ubu come “miglior nuovo testo italiano” e l’Hystrio Twister per il “miglior spettacolo della stagione”. Enia con i modi del “cunto” siciliano “evoca” immagini. «Ma occorre un lavoro lungo di scrittura e di prova per ottenere certi effetti – spiega l’artista –. Per esempio, con Giulio Barocchieri, l’autore delle musiche originali, lavoriamo sul ritmo e su ogni nota per individuare la soluzione più onesta e aderente».

Lei è stato testimone degli sbarchi a Lampedusa: ma l’attitudine alla solidarietà, al rispetto per l’altro non sembrano così universalmente diffusi, oggi, nel nostro paese.

«Abbiamo trascorso vent’anni di abbassamento della dignità a opera dalla politica e dalla televisione, ci si è riempiti la pancia aumentando allo stesso tempo l’egoismo, e colmando la testa della gente di cazzate: uno scarico di responsabilità spaventoso, che ha generato conflittualità fra le generazioni e una rabbia sociale nuova da noi! Poi, anziché consolidare il welfare, si cerca, e si trova, un nemico che assolva dalle colpe… Un’idea sganciata dalla realtà, e perdente».

Lei porta allora nello spettacolo la sua esperienza diretta.

«Lo faccio attraverso un dialogo fra un padre e un figlio sulle traversate, i soccorsi, gli approdi, le morti, cercando di dare voce, e quindi di fare ascoltare, i primi interpreti di quello che accade: cioè la guardia costiera, gli isolani, i pescatori… Ascoltando loro, ti rendi conto che la narrazione fatta dalle tv o dalla politica è faziosa, drogata, sbagliata. Di più, c’è un uso errato e fazioso dello stesso vocabolario. Un esempio? Per vent’anni abbiamo parlato di clandestini, ma è solo il giudice che decreta quello stato, però chiamare i migranti, chi è costretto a fuggire dalla propria terra, “clandestini” aumenta il senso di pericolo nella popolazione che “accoglie”. Un uso delle parole di questo tipo stravolge però la narrazione, e riduce l’uomo, che è meraviglioso e unico, a numero, a statistica, oltre a mettere in luce la mancanza di rispetto per queste persone. Anzi, il racconto che viene fatto, a volte anche quello che apparentemente simpatizza con loro, contribuisce solo a togliere loro dignità e a presentarle in un modo che incrementa la nostra paura, e soprattutto la nostra convinzione che la loro storia non ci riguardi. Ma il naufragio di cui si parla è anche nostro, di un “occidente” immemore, incapace di prevedere e di condividere, oggi di fronte a un flusso di disperati che diventerà sempre più imponente. Per questo, romanzo e spettacolo dichiarano già nel titolo la crisi della parola nel raccontare il tempo presente. La parola infatti arriva fino a un certo punto, al… coraggio della frontiera, ma nel nostro caso fallisce: perché non più in grado di controllare il mondo, di “contenerlo”».

Biglietto: 15 euro. Info: 0546 21306 www.accademiaperduta.it

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