Daphne, la storia della barca che salvò l'Adriatico

CESENATICO. Non tutti lo sanno ma la prima grande battaglia ambientale vinta in Italia è iniziata negli Anni Settanta sulle coste romagnole. L’emergenza del mare Adriatico trovò finalmente una risposta in una legge e in altre azioni politiche. Una cosa del genere, di queste dimensioni, non era mai accaduta. Ebbene, fra i protagonisti di questa vittoria (che va comunque continuamente gestita) ci sono anche una barca, le persone che l’hanno voluta e quelle che su di essa hanno navigato lungo la costa fra Cattolica e Goro per studiare il mare e la sua salute. In primis i biologi Attilio Rinaldi e Giuseppe (detto Renzo) Montanari che su quella barca salirono assieme al comandante e al marinaio che si occupavano della navigazione.
L’inizio di tutto può essere collocato nel periodo agosto-settembre del 1975 quando i fenomeni legati all’eutrofizzazione si fecero più frequenti. «Ci trovavamo proprio di fronte a un’emergenza», racconta Rinaldi, che oggi a 74 anni è presidente del Centro Ricerche Marine di Cesenatico e continua a fare immersioni subacquee. «Acque che si coloravano di rosso, marrone scuro, verde. Odori pungenti che si diffondevano nei borghi costieri e nell’entroterra. Nei casi più acuti il fenomeno provocava anche morie di pesce e invertebrati marini che con la risacca finivano per essere spinti tra i piedi dei bagnanti».

Un investimento sulla ricerca

Certo, se ci fu una battaglia ambientale (e soprattutto se fu vinta) si deve anche al fatto che accanto al tema dell’Adriatico come bene naturale c’era l’aspetto economico legato all’industria del turismo e alla pesca. Le condizioni del mare misero in seria difficoltà l’industria vacanziera più importante d’Italia. Ma a destare maggior sconcerto era la mancanza di una diagnosi su quanto stava accadendo. Perché il mare si colorava di rosso? Perché i pesci morivano?
La Regione Emilia-Romagna decise di investire sulla ricerca. E si affidò a a due studiosi, due autorità del settore: il professor Roberto Marchetti dell’Università di Milano e il professor Richard Albert Vollenweider che aveva acquisito una grande esperienza sui laghi nordamericani. Ben presto ci si rese conto però che bisognava dotarsi di strumenti adatti allo scopo. Nacque così l’idea del battello oceanografico Daphne che fu varato nell’agosto del 1977. «L’intuizione è da attribuire a Lanfranco Turci, prima assessore alla Sanità con delega all’Ambiente e poi presidente della Regione Emilia-Romagna dal 1979 al 1987», ricorda Rinaldi.

Quando i prelievi li facevano i Carabinieri

Le prime attività di monitoraggio delle acque costiere erano iniziate nel 1975 ma dal punto di vista scientifico prestavano il fianco a molti dubbi. «I prelievi in mare», ricorda Rinaldi, «erano affidati a più unità, tra queste le motovedette dei Carabinieri, delle Capitanerie di Porto, della Finanza e a privati mediante l’utilizzo di normali motoscafi. Nulla da dire sulla volontà e sulla grande disponibilità dimostrata, ma le carenze che emersero furono sostanziali. Mancavano sia le idonee attrezzature che quel tanto di professionalità che in questi casi può fare la differenza». A cominciare dalle carenze legate al corretto posizionamento del punto di prelievo dato che molte barche non avevano il radar e il Gps era ancora in fase di studio negli Usa. L’arrivo della Daphne fece fare un salto di qualità. La costruzione fu affidata alla Nord Cantieri di Avigliana (To). Il nome, oltre che rifarsi alla mitologia greca, era l’acronimo di Dagh Watson (progettisti), Philips (strumentazione scientifica) e Nord Cantieri ed Emilia-Romagna (Da.ph.n.e). Lunga 12,5 metri e larga 4, la barca ospitava nella cabina di poppa un laboratorio e viaggiava a una velocità di crociera di nove nodi.
«I limiti di questa imbarcazione», spiega ancora Rinaldi, «erano dovuti per lo più alle dimensioni e alla scarsa velocità che portarono nel 1988 a un nuovo battello, ma la Daphne I ebbe di sicuro anche il merito di fungere da nave scuola per i ricercatori che ci hanno lavorato sopra e che così hanno potuto avanzare le proposte progettuali per il nuovo battello oceanografico». Tanti sono stati e continuano a essere i ricercatori ospitati a bordo.

Da Cattolica a Goro

L’incontro fra Rinaldi e il battello oceanografico fu casuale. «Ero arrivato alla Daphne dopo essere stato come biologo per un paio di anni a lavorare all’estero, soprattutto in Bulgaria e Romania, a studiare fra l’altro le migrazioni degli uccelli alpini. Mandai un curriculum alla Regione e il fatto di poter vantare anche la patente nautica e il brevetto da sub non fu indifferente. A distanza di pochissimo tempo mi arrivò una chiamata per lavorare all’Ufficio Caccia ma io avevo già scelto il mare…»
Anni pioneristici. La rotta era ogni giorno diversa e si sviluppava nel tratto di mare compreso fra la costa da Cattolica a Goro e i 20 chilometri al largo. La barca non poteva andare molto veloce. Così, comandante, marinaio e biologi quando uscivano per i rilevamenti a nord, spesso dovevano fermarsi a dormire a Goro o Porto Garibaldi, paesi di pescatori. «C’era una grande sintonia», ricorda Rinaldi. «La nostra presenza la sera diventava quasi una festa di paese. Si faceva la grigliata, si beveva il vino, si mangiava insieme… E qualcuno tirava fuori anche la chitarra».

Ricerca scientifica ma anche avventura

Insomma, un lavoro scientifico sì ma con alcuni aspetti romantici e avventurosi. «Sì usciva in tutte le stagioni», ricorda Renzo Montanari, oggi 72enne. «Una volta, al largo del Delta ci incontrammo con una nave del Cnr e lavorammo con loro fianco a fianco durante la giornata. Solo quando ci staccammo per tornare, ci rendemmo conto che eravamo rimasti tutto il tempo sotto vento e nel frattempo si era alzato un mare con onde di 3-4 metri. La barca sbandava di continuo. Non fu facile rientrare in porto. Un’altra volta ancora, a Venezia, lavoravamo sui flussi di marea ed eravamo fermi nel canale della Giudecca a fare misurazioni. Era febbraio ed erano le tre di notte. Arriva un transatlantico trainato da tre rimorchiatori. Avanza e suona. Stessa cosa anche i rimorchiatori. Noi però avevamo problemi col motore e non riusciamo a partire. Capito il problema, i rimorchiatori allora cercano di deviare la nave e all’ultimo momento sganciano i cavi che altrimenti ci avrebbero tagliati a metà. La nave ci è passata di lato toccando i parabordi! Poi hanno dovuto anche faticare non poco per riprenderla ed è andata a sbattere su una banchina».
Per non parlare poi delle nebbie… «Una volta, nella sacca di Goro, siamo finiti in una secca e siamo dovuti restare fermi per ore ad aspettare l’alzarsi della marea». La nostalgia affiora nelle parole di Montanari. «Certo, un po’ di nostalgia c’è ma c’è anche soddisfazione per tutto il lavoro che abbiamo svolto. Un lavoro molto delicato. Ricordo quanto fossimo sotto pressione in certi periodi quando dovevano uscire i bollettini… D’altra parte c’erano in ballo interessi enormi. L’estate dopo la mucillagine del 1989 i valore commerciale degli alberghi era calato del 30%!»,
Se la battaglia (almeno per ora) sembra vinta fu anche grazie al gioco di squadra di Regione, istituzioni e comunità locali, imprenditori, in un lungo percorso fatto di confronti serrati dove non mancavano momenti genuini. L’ex sindaco di Rimini ed ex deputato Giuseppe Chicchi negli Anni Ottanta assessore regionale all’Ambiente e poi al Turismo ricorda un’assemblea degli albergatori a Cattolica nell’agosto 1984 dove un signore si presentò con un secchio d’acqua marina eutrofizzata. «Si esibì in una dimostrazione pubblica della soluzione al problema. Vi fece cadere un chilo di sale fino. Le microalghe rapidamente precipitarono sul fondo. La tesi era che bastava aumentare la salinità dell’acqua. Tesi di per sé corretta che fu però rapidamente smantellata quando qualcuno del pubblico chiese quanto sale si doveva versare in mare per ottenere lo stesso risultato»… In settembre assemblea pubblica all’azienda di soggiorno di Cesenatico. Arriva il ministro dell’Ecologia Alfredo Biondi. Sala strapiena. Caldo asfissiante. «Vedendo il ministro copiosamente sudato, un bagnino aprì uno dei finestroni che guardano verso il mare», ricorda Chicchi. «Entrò in sala una zaffata di odore del pesce spiaggiato che stava marcendo. Biondi soffriva d’asma già di suo, quell’odore nauseante gli causa una difficoltà respiratoria e cominciò a tossire insistentemente. “Cos’è questa puzza?”, mi chiese. É esattamente il motivo per cui se stato invitato!”, gli dissi. Biondi capì così la gravità del problema… E’ esagerato dire che il movimento per la salvezza dell’Adriatico deve molto a quell’anonimo bagnino in canottiera e calzoncini?».

Lo show di Grassi che si beve il mare

Toccò allo stesso Chicchi, su indicazioni dei biologi, procedere per realizzare la Daphne II. Dopo una capatina al Salone Nautico di Genova, dove ci si rese conto che gli yacht della Ferretti non erano alla portata delle tasche della Regione, si affidò un incarico a un cantiere che era più indicato alla costruzione di quello che è un battello ma anche un laboratorio. Nell’agosto 1988 fu così varata la Daphne II: lunga 17,30 metri, larga 4,70, più veloce (20 nodi), carena planante e adatta ai bassi fondali, con la possibilità di allestire meglio tutte le apparecchiature necessarie. L’anno dopo si trovò subito di fronte a una nuova emergenza: le mucillagini. E proprio a bordo del nuovo battello si consumò una delle perle della storia della promozione del turismo romagnolo. Primo Grassi, presidente di Agertur, l’ente di promozione del turismo, sale a bordo della Daphne II e fa chiamare i giornalisti. Solleva un bicchiere di acqua dell’Adriatico con la mucillagine e la beve! Qualcuno racconta che prima del plateale gesto, forse in un estremo atto di lucidità, si sia rivolto al biologo che aveva di fianco chiedendo in romagnolo: di’… non mi farà mica male? Ma a prescindere dalla risposta è certo che ormai quel bicchiere l’avrebbe bevuto.

La battaglia vinta e la sua eredità

Cosa resta di quella battaglia? «Oggi c’è una rete di monitoraggio molto efficiente e puntuale», dice Chicchi che fino a due anni fa ha insegnato Economia del Turismo alla Sapienza di Roma. «C’è un centro di ricerche marine diventato un punto di riferimento importante. C’è un fiume Po che è stato sostanzialmente risanato e tutto questo spiega perché l’acqua dell’Adriatico negli ultimi anni è molto migliorata. La battaglia per l’abbattimento del fosforo approdò a una legge approvata nel 1986. L’Unione Europea ha fatto qualcosa di simile nel 2013. Almeno in questo siamo stati precursori! Ma c’è una lampada da accendere. Tutte le grandi riconversioni industriali, compresa quella ecologico ambientale che è in corso, vanno considerate dal punto di vista della salute dei mari e dell’ambiente. Cambiano i modi di produzione e l’uso dei materiali. Bisogna verificarne gli effetti anche alla luce del corpo ricettore».

Mazziotti: «Ancora tante sfide ci attendono»

«Di miglia percorse fino ad oggi la Daphne ne ha tante e molte ancora ne percorrerà», commenta la biologa Cristina Mazziotti, di Arpae Emilia-Romagna - Struttura Oceanografica Daphne, Unità Coordinamento Settore tecnico marino, oggi impegnata sul battello. «Lo studio dei fenomeni ambientali necessita di continue osservazioni e analisi applicate, al fine di aumentare sempre più le conoscenze sul mare. Oltre alle attività condotte in ottemperanza alle leggi vigenti, la Struttura continua a essere impegnata anche in ricerche volte a meglio comprendere le dinamiche del sistema marino per poterlo preservare. Ancora tante sfide ci attendono più o meno difficili ma di sicuro le energie impegnate in questi studi continueranno a essere guidate dalla convinzione che il mare è una fonte di risorse di valore inestimabile per tutta l’umanità e come tale va tutelata».

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