Dante 700, l'Alighieri e l'Artusi esuli

Due esili a confronto: due uomini, due periodi storici, una stessa nostalgia. Sergio Spada, medievalista, un’autorità sul Rinascimento e sulla famiglia forlivese degli Ordelaffi, e Mario Proli, giornalista ed esperto dell’Ottocento italiano, dialogano di “Luoghi dell’esilio: la Forlimpopoli che accolse Dante, la Firenze che accolse Artusi” nel Dantedì, questa sera alle 21.

L’appuntamento, condotto dell’assessore alla Cultura del Comune, Paolo Rambelli, è in streaming dal teatro Verdi di Forlimpopoli sulla pagina Facebook del Comune.

«La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è la sintesi di un’intera vita – anticipa Mario Proli – vissuta da Pellegrino Artusi in un esilio volontario. Dante da Firenze si deve allontanare, Artusi la sceglie come nuova patria dopo essere cresciuto in un contesto che comunque gli permette di conoscerla già prima di trasferirvisi. Figlio di commercianti infatti viene avviato presto all’attività di famiglia, e se ne rammarica rispetto all’educazione che avrebbe desiderato».

Eppure, al suo libro si riconosce di aver diffuso la conoscenza dell’italiano fra tutti gli strati della società, più degli stessi “Promessi sposi”.

«È vero. Artusi ha dalla sua molte esperienze di vita in un’Italia in profonda trasformazione: è a Trieste, a Livorno, a Firenze appunto. Quando poi avviene nel 1851 il fattaccio del Passatore, è proprio lui a proporre il trasferimento in Toscana e la vendita della casa di Forlimpopoli, anche se la famiglia vi mantiene dei terreni. Anzi, a Firenze resterà sempre a pigione, anche in quella casa in piazza D’Azeglio dove con i domestici Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini getta le basi di una nuova cucina. Ma il cuore resta a Forlimpopoli: a Firenze Artusi è un uomo realizzato, scrive su Foscolo, frequenta una comunità di persone colte, spesso non fiorentine, a cui è affezionato. Ma il suo è a tutti gli effetti un esilio, con una forte rivendicazione di identità e di orgoglio. Nato nella piccola Forlimpopoli, diventa famoso infatti in una delle città della cultura, una città multietnica, come descrive il censimento del 1871, in cui lui si coltiva fino a mettere mano a quel capolavoro che è La scienza in cucina».

«A Dante lo accomuna infatti la lontananza dalla patria – sottolinea Sergio Spada –, a maggior ragione perché quello dell’Alighieri è un viaggio di sola andata, con tutta l’amarezza e il dolore dell’esilio esemplificati dalle terzine di Cacciaguida sul “quanto sa di sale lo pane altrui”. Eppure nelle sue peregrinazioni, Dante ha incarichi di prestigio: a Forlì, ospite di Scarpetta Ordelaffi dal settembre 1302, all’inizio del 1303 ha l’incarico di vagliare le volontà dei guelfi bianchi in Romagna in vista della costituzione della universitas partis Alborum, la coalizione dei bianchi. Arriva sicuramente a Bertinoro, e forse anche a Forlimpopoli, alleata di Forlì ma autonoma politicamente».

Cosa vi trova?

«Una civitas rupta, quella della distruzione dei Longobardi di Grimoaldo, e una civitas nova verso est. I nobili fuoriusciti a Ravenna erano tornati infatti, anche su incoraggiamento dell’avo di Scarpetta, e ricostruivano le case intorno al vescovado e a San Rufillo, sulla “via dei Maggiori”. In questo grande cantiere forse fu ricevuto e ascoltato da chi come lui si opponeva ai Guelfi neri: per questo risulta poco credibile quanto afferma lo storico Luigi Valbonesi, che lo dice ospite della famiglia Uccellini, della pars dei Neri».

Ma poi arriva la battaglia della Lastra, nel 1304.

«Una catastrofe per i bianchi, e per Dante la fine della speranza di poter tornare a Firenze. A Forlì è nuovamente nel 1310, in attesa di quell’Arrigo VII su cui riponeva tante speranze, e Biondo Flavio dice di aver letto lettere dettate da Dante nel pieno della sua attività diplomatica. Alla Romagna resta legatissimo: il De volgari eloquentia per esempio testimonia la sua profonda conoscenza della lingua, che giocosamente definisce “femminile” con molti esempi della pronuncia. Neanche Arrigo VII però risolleva le sorti dei bianchi: e il destino di exul immeritus per Dante non cambierà mai più».

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