Da Imola alla Columbia University. "Non sono un cervello in fuga"

Enrico Cocchi, 31 anni, da Imola. È il giovanissimo medico-ricercatore italiano cui la comunità scientifica internazionale ha assegnato uno dei più prestigiosi riconoscimenti nel campo della ricerca genetica, quello dell’American Society of Nephrology, la più importante società mondiale nel campo della genetica delle malattie renali. Il dottor Cocchi è il primo italiano a vincere la Jared J. Grantham Research Fellowship: un premio di 100.000 dollari su cui potrà contare per due anni per portare a termine il suo progetto di ricerca sul ruolo delle mutazioni somatiche nelle malattie renali, un campo attualmente mai esplorato. Formato all'Università di Bologna dove ha studiato medicina laureandosi con lode nel 2014, sotto le Due Torri ha iniziato a muovere i primi passi nel mondo della genetica ed in particolare della bioinformatica. Passato nel 2015 all'Università di Torino dove si è specializzato con lode in Pediatria, ha continuato a collezionare pubblicazioni e premi in ambito di ricerca. Poi, nel 2019, il trasferimento a New York per lavorare come research scientist alla Columbia University nel prestigioso laboratorio del professor Lance Gharavi, il top della ricerca genetica in ambito renale. Lì ha iniziato ad interessarsi di mutazioni somatiche, quelle variazioni del DNA responsabili di malattie che non sono trasmesse dai genitori ma che progressivamente si accumulano per i piccoli errori che il DNA umano commette ogni volta che si replica.

Dottor Cocchi, lei è un cervello in fuga dall’Italia?

«In fuga nel senso che comunque adesso lavoro negli Stati Uniti, però l’idea di rientrare un giorno in Italia c’è. Diciamo quindi che è una fuga temporanea. Dovrò ovviamente vedere un po’ che cosa succede. Questa borsa va avanti due anni e poi bisogna vedere cosa emerge dalla ricerca in sé».

Come è nato questo particolare e fino adesso inesplorato interesse?

«Studiando medicina è comunque una di quelle materie che fondamentalmente si trattano e mi aveva sempre un po’ affascinato la maniera di andare a cercare di capire come determinate cose scritte nel DNA sono in grado di trasformare informazioni super complesse, tipo quelle di far crescere un essere umano».

In Italia studi come il suo si possono sviluppare?

«In via teorica si. I materiali, i macchinari in questo mondo globalizzato, sono più o meno disponibili ovunque. I pazienti di sicuro non mancherebbero, è semplicemente un discorso di investimenti. La mia speranza è di poter trovare terreno fertile per fare questi studi in Italia».

Come è arrivato alla Columbia

«Tutto è iniziato con la collaborazione per uno studio fatto su alcuni marcatori genetici nel trapianto. Un lavoro a cui fondamentalmente ho collaborato quando ero a Torino e dentro a questo studio c’era anche un gruppo della Columbia. Poi ne sono nati altri due o tre».

Secondo lei è giusto mantenere i test per accedere a medicina?

«Io sono stato uno degli ultimi a fare i test ancora su base locale mentre ora è nazionale. Sono il primo ad aver sempre pensato che un test non può permettere di cogliere le caratteristiche di una persona in maniera tale da decidere se può fare o meno una professione. Allo stesso modo mi rendo conto che un metodo di selezione sostenibile bisogna comunque trovarlo».

A Imola torna ogni tanto?

«Assolutamente si. Casa rimane comunque casa».

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