Cuochi e vignaioli militanti per la fabbrica dei marroni di Marradi

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Così, vuota, è solo un capannone di ferro e lamiera alle porte del paese. La sua anima adesso è costretta a stare fuori, davanti ai cancelli. Ciò che ha alimentato dal 1984 l’Ortoftutticola del Mugello, la “fabbrica dei marroni”, la sua anima appunto, sono le donne e gli uomini che ogni giorno portavano in quel capannone le loro mani e le loro teste: il loro lavoro. Fra Natale e Capodanno hanno saputo che se vogliono continuare a farlo quel lavoro devono lasciare le proprie case, in Appennino, il proprio paese Marradi e trasferirsi a Bergamo dove i padroni intendono spostare la fabbrica. Le operaie, soprattutto, e gli operai della “fabbrica dei marroni” di Marradi, appena oltre il confine romagnolo e già in Toscana, hanno deciso di piazzarsi giorno e notte davanti a quei cancelli dal 31 dicembre, per evitare che pezzo per pezzo la fabbrica venga portata via. I negozi e i bar in paese hanno affisso un cartello “io sto con loro”, i bambini delle scuole elementari hanno disegnato per loro i cartelloni con le castagne da affiggere a quei cancelli. I ragazzi della squadra di calcio locale sono andati ad allenarsi nel prato davanti al presidio e hanno fatto loro compagnia. Il mondo ora va alla fabbrica per alimentare con un sorriso una azione di resistenza che parla di cibo, lavoro e territorio. Sono andati anche chef militanti da tutta Italia mobilitati dall’associazione Tempi di recupero di Faenza. Perché cibo significa prima di tutto persone, lavoro, un territorio che vive e si sa quanto la montagna ne abbia bisogno, di vita.

Cosa succede

Nello stabilimento dell’ Ortofrutticola del Mugello, aperta nel 1984, dal 1991 si producono marron glacé, lavorando in parte marroni di Marradi Igp conferiti dai castanicoltori della vallata. Sedici mesi fa, l’Ortofrutticola del Mugello è stata acquisita da quella che prima era la sua concorrente diretta Italcanditi, che ha sede in provincia di Bergamo, a sua volta controllata dal Fondo Investindustria. A fine dicembre scorso, mentre i lavoratori erano in ferie, è stata comunicata la volontà dell’azienda di cessare l’attività dello stabilimento trasferendo tutta la produzione in Lombardia. Nella trattativa sindacale in corso l’azienda ha proposto di mantenere lì una lavorazione per snack e semilavorati, ma per ora questa idea non piace a nessuno e non dà garanzie, la filiera dei marroni del territorio comunque si spezzerebbe. La Regione Toscana ha approvato una mozione unanime per chiedere che la proprietà non delocalizzi; la vertenza non è chiusa. Intanto prosegue la mobilitazione, sostenuta dagli stessi castanicoltori, come Rita Neri dell’azienda agricola Vossemole che ha chiamato in causa Tempi di recupero e sta contribuendo a tenere alta l’attenzione sulla fabbrica.

Una filiera e un territorio

«Qui si era creato un rapporto qui famigliare, noi castanicoltori portavamo il nostro raccolto alle 6 del mattino alla pesa contavano i marroni, facevano prezzi differenziati a seconda della pezzatura, una conduzione amichevole», spiega Rita Nardi che conferisce parte del suo raccolto. «Nel tempo questa fabbrica si era guadagnata la fiducia di tutti i grandi marchi del settore e produceva marron glacé ad esempio per Lindt, Caffarel, Vergani – continua Rita –. A lavorarci sono soprattutto donne, fisse e stagionali e anche per loro questo lavoro consentiva un reddito e insieme di poter conciliare i tempi con quelli della casa e della famiglia». Insomma, la fabbrica aveva creato un equilibrio anche sociale, non solo sulla filiera di un prodotto. «La nostra è una fabbrica ma lavoriamo in maniera artigianale –racconta Sonia Alpi, portavoce di colleghe e colleghi –. A gennaio saremmo entrati per la manutenzione dei macchinari per partire con la produzione a fine febbraio. Io sono entrata qui a 19 anni, inizialmente si pelavano solo le castagne poi si cominciò coi marron glacè. Di bello in questo lavoro è che c’è tanta manodopera, nessun marrone è uguale all’altro e noi abbiamo imparato come lavorarli al meglio uno ad uno, possiamo metterci del nostro in quello che facciamo».

Cuochi e vignaioli militanti

Carlo Cattani di Tempi di recupero ha accolto la richiesta di aiuto e ha attivato la rete di cuochi e vignaioli che ha dato vita a un momento coinvolgente al presidio dei lavoratori dell’Ortofrutticola del Mugello martedì mattina. «Quello che si affronta qui è un tema gastronomico, ma è anche un tema di territorio – dice Carlo Cattani – si parla sempre più spesso di montagna, ma se non abbiamo chi li presidia il rischio è l’abbandono. Perciò anche salvaguardare la montagna è una azione di “recupero”». Partendo da una filiera di prodotto come quella del Marrone di Marradi Igp si è perciò parlato intensamente di cibo e dunque di persone.

Appennino che fa squadra

Giorgio Melandri ha portato la solidarietà dell’associazione di vignaioli della valle accanto Stella dell’Appennino di Modigliana, con i vini della sua cantina Mutiliana. «A volte ci si oppone ai cambiamenti per partito preso, ma questa è una vicenda che puoi guardare da diversi punti di vista diversi e trovarla sempre sacrosanta. C’è una proprietà che in nome dell’efficienza economica vuole decontestualizzare una produzione. Ma non tiene conto che dietro questa fabbrica c’è un’intera filiera, e dietro la filiera ci sono dei valori e una storia. Una comunità che qui si sta mostrando chiaramente. Noi di Stella dell’Appennino produciamo vino, un prodotto il cui racconto è interamente legato ai luoghi e ai territori e in questo caso ci prestiamo volentieri a testimoniare un Appennino che fa squadra».

Chef e stelle in presenza

A cucinare per i lavoratori del presidio sono arrivati martedì Riccardo Agostini del Piastrino di Pennabilli in rappresentanza dei cuochi di Chef to Chef e Francesco Brutto del Venissa di Burano. Riccardo Agostini ha concentrato la sua idea di montagna in una crema di farina di marroni di Marradi, con un ragù di carni di cortile, coniglio e pecora, e formaggio pecorino. «Mi sento coinvolto come artigiano e come cuoco. È importante che piccole produzioni restino in montagna, per le persone che ci lavorano ma anche per tutto il territorio». Francesco Brutto è arrivato dalla laguna di Venezia, ma la Romagna la conosce perché ha lavorato in passato a Torriana al Povero Diavolo. Ha cucinato gnocchi di farina di marroni conditi con latte e panna aromatizzato con legno affumicato e rosmarino. Nel ristorante Venissa che conduce con la compagna chef Chiara Pavan nel 2021 ha ottenuto la stella verde Michelin, che si è aggiunta alla prima stella canonica, per l’impegno sull’ecosostenibilità: «Siamo sempre politicizzati nel nostro modo di fare cucina. Per l’ambiente, ma anche sulla sostenibilità del lavoro, i diritti delle persone, la loro stabilità economica e il loro diritto alla felicità. Le difficoltà del vivere in una valle di montagna credo si assomiglino».

On line da tutta Italia

A presidio in corso si sono aggiunte in diretta Facebook, condotta dal curatore della Guida osterie d’Italia Slow Food Eugenio Signoroni, le voci di chi avrebbe voluto esserci ma non ha potuto lasciare il ristorante o magari era chiuso per Covid. Ne è nato una ricca riflessione sul cibo e le zone appenniniche e la necessità di difenderle. «Crediamo nella battaglia per il mantenimento della popolazione autoctona delle aree che vengono definite “marginali”. È un problema molto serio perché chi abita i luoghi sparisce e rimangono solo i turisti», ha sottolineato Chiara Pavan chef del Venissa.

«Anche noi viviamo in un luogo molto turistico – ha detto da Cortina Riccardo Gaspari chef del Sanbrite –. Il turismo è una fortuna, ma se le persone se ne vanno si perde forza lavoro, creatività, idee, saperi e un modo di vivere. Ad esempio come prendersi cura dei boschi e del territorio. Solo chi vive in un posto lo ha a cuore e lo cura».

Juri Chiotti del Reis - cibo libero di montagna di Busca in Piemonte si sente particolarmente coinvolto: «Vivere un territorio con le proprie mani è fondamentale, la gente che abita un territorio ne disegna le forme e gli aspetti, la bellezza dei posti in montagna è data dalla natura certo ma anche dal lavoro e dal rapporto dell’uomo con questa natura. La gente prima deve essere felice di vivere in un territorio, averne le possibilità e le condizioni, solo dopo può avere la possibilità di richiamare anche il turismo. E le montagne possono essere un punto di partenza per contrastare quel che già non va nel mondo, ad esempio il clima che cambia ».

Dalla metropoli milanese Diego Rossi lega alla castagna i ricordi di infanzia, un po’ emiliana e un po’ veneta, e quei sapori li ha riportati al suo Trippa: «Ogni anno non vedo l’ora che arrivi la stagione delle castagne. Mia madre faceva un castagnaccio che nel veronese si chiama “la bole”, era solo acqua e farina di castagne, non la sopportavo da piccolo ora è il mio dolce preferito. Credo si chiamasse così perché lo vendevano soprattutto ambulanti toscani che arrivavano con la pentola e gridavano “l’è calda la bolle”, i veronesi sentivano “la bole” che vuol dire sempre sta bollendo. Oggi da Reggio Emilia mi faccio mandare una farina di castagne di metato pazzesca dolcissima, e lo faccio anche io».

Arcangelo Tinari di Villa Maiella

a Guardiagrele in provincia di Chieti racconta di come la montagna perda popolazione e saperi: «Qui, dove la transumanza esiste da sempre, è diventato complicato anche portare le pecore al pascolo, nessuno sa più scalpellare il leggo o la pietra o battere il ferro. Stare in montagna è un’arma a doppio taglio: abbiamo la possibilità di trovare fantastici prodotti, ma poi ci sono sempre nuove regole che a volte non permettono nemmeno di fare cose che per secoli hanno mantenuto vivi questi luoghi, ad esempio pulire il bosco e utilizzarne la legna. La mancanza di ricambio generazionale è un problema e se non ci sono le persone le istituzioni non investono sui territori». Si sono uniti alla mobilitazione anche Barbara Piaggio dell’osteria Ligagin di Lumarzu entroterra genovese e

Luigi Lepore dalla Calabria che sogna una vera filiera della castagna a cui attingere anche sul suo territorio.

Sostegno romagnolo

Forte la voce della Romagna e dell’Emilia. Si sono collegati Giorgio Rattini dell’Osteria Oreste di Santarcangelo che alle castagne dedica molto spazio in menù, e Giovanni Cuocci de La lanterna di Diogene di Bomporto di Modena: «L’Appennino rischia la desertificazione se non diamo alle persone la possibilità di restarci. La filiera corta poi è la base di una transizione energetica per avere meno sprechi e sfruttare al meglio quello che abbiamo intorno. Non dovrebbe essere permesso a una azienda di non considerare come proprio capitale le persone. Almeno, la grande partecipazione della comunità di Marradi a questa vicenda dimostra che la solidarietà è ancora uno dei fondamenti della nostra società». Roberto Casamenti de La Campanara di Galeata evidenzia come «Anche se a Marradi sono toscani e noi siamo romagnoli, la cultura della castagna la condividiamo e per lungo tempo ha salvato i nostri territori dando cibo e legname. Si parla tanto di ridare vita ai borghi, bisogna passare alla pratica. Bisogna che anche la politica capisca che nei territori le persone devono poter vivere bene e con poco si possono risolvere problemi. Forse l’azienda pensa solo al discorso economico, ma in sinergia con la politica si possono trovare dei rimedi». Dalla valle del Savio Gianluca Gorini conosce la fatica di cucinare in montagna: «Il caso della fabbrica rappresenta un problema sociale e di lavoro, ma anche culturale. Marradi oggi è conosciuta per i suoi marroni e non vorrei che nel momento in cui la si privi di una sua tipicità venga meno non solo un’ economia ma anche una cultura. Qua nella nostra valle tante persone vengono a vivere il luogo perché in autunno si prendono il lusso di fare una cosa semplicissima: raccogliere le le castagne. Vorrei che si riflettesse su quello che rappresenta la tipicità di un prodotto in un luogo. Lo spopolamento dovuto alla mancanza di lavoro alla lunga può portare a dimenticarsi alla perdita di identità, bisogna che le istituzioni ci pensino e facciano la propria parte».

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