Uno spartito musicale che fa spiccare la nota sul pentagramma

Latografia©. Nel profondo oltre la fotografia è il titolo della mostra di Mario Flores, attualmente in corso negli spazi della Galleria Zamagni Arte a Rimini, fino al 23 marzo. Un titolo che è esso stesso un manifesto d’intenti. In quanto il progetto è frutto di una lunga spùerimentazione, di una immersione totale nel mezzo fotografico, sviluppatosi con l’intento specifico di «ritrovare la profondità delle immagini scattate durante i viaggi in Italia e nel mondo». La risultante di questa gestazione porta alla luce una esclusiva tecnica, la latografia, che richiede «un importante lavoro di post produzione grafica». Per ottenerla Mario Flores scontorna «la prima parte della scena estraendola e ricostruendo successivamente tutto ciò che è mancante sullo sfondo. Ogni immagine ha bisogno di una diversa distanza tra le due stampe. Le cornici sono da considerarsi parte integrante dell’opera».

Mario Flores ha lavorato in ambito musicale con i grandi artisti e cantanti della scena italiana e internazionale. Un percorso che lo ha portato verso una ricerca fatta di armonie e suggestioni narrate con la fotocamera e la videocamera e che alla fine degli anni Novanta lo ha definitivamente avvicinato alla fotografia professionale pubblicitaria parallelamente alla grande passione per la fotografia d’arte.

Questi elementi, che costituiscono l’excursus creativo di Flores, lo portano alla necessità di evolvere la propria ricerca. Ecco, quindi, che dal 2020 sente il bisogno di approfondire il suo ambito di indagine e dedicarsi a nuovi studi, passando attraverso varie fasi di sviluppo. Queste ricerche messe in campo nel corso del tempo non sono dati di poco conto, anzi, ci permettono di capire come egli sia giunto a codificare questa sua nuova tecnica fotografica registrata, la latografia.

Nelle sue fotografie Flores è come se agisse su uno spartito musicale, facendo emergere la tridimensionalità della nota rispetto al pentagramma, che una volta uscita dalla bidimensionalità della pagina si fa musica, per avvolgere e coinvolgere gli altri sensi, andando oltre la terza dimensione. Quasi un progetto sinestetico quello messo in campo dalla ricerca fotografica di Flores, in cui sfere sensoriali diverse vengono delicatamente associate, fino a fondersi l’una nell’altra a seconda della prospettiva da cui si osserva l’opera. Un esperimento degno degli albori della tecnica, quello messo in campo nel suo gioco metaforico. In cui ci si inabissa nella ricerca percettiva, andando oltre il dato oggettivo, oltre ciò che l’immagine stessa rappresenta.

Un viaggio a più livelli intorno a luoghi simbolici, edifici iconici, o musei italiani e internazionali, quello in cui ci conduce Mario Flores, in un sincretismo di linguaggi che si palesano lentamente, in un tuffo anche giocoso di sottotesti. Lo fa ponendoci innanzi una immagine scattata in controluce, nera, una silhouette dall’eco settecentesca, che qui diviene una sorta di quinta teatrale, atta allo svelamento della scena, come a introdurci nello spazio scenico in cui si svolge l’evento spettacolare: in questo caso, la messa in scena del museo, che in realtà ne è soggetto principe. Quasi la scenografia della visione di un dettaglio, sia esso dell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, del Mart di Rovereto o del Moma di New York. Creando più piani di osservazione e al contempo un’unica sinfonia dello sguardo, come un suono restituito dalla somma di tanti suoni singoli. Come a puntare sull’accumulo di esperienze, sulla stratigrafia della visione di cui non avere timore. Mobilitando i sensi attraverso un sincretismo artistico, per andare oltre il “dato per scontato” e mobilitarci, stimolarci a una visione più attiva, quasi fisica, per il recupero di un’arte totale.

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