Storia: Avagliano, Palmieri e la Resistenza degli Imi
FAENZA. La storia degli Imi (internati militari italiani) – circa 650mila soldati che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, furono catturati e deportati dai tedeschi – riporta a una memoria di grande interesse storico e sociale anche per la Romagna.
Una ricchissima mole di diari, lettere e testimonianze dirette, edite e ancor più inedite si trovano in un volume edito dal Mulino:
“I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943- 1945)” di Mario Avagliano e Marco Palmieri, presentato il 15 febbraio al Museo faentino del Risorgimento e dell’Età contemporanea. Racconta una pagina di storia a lungo trascurata e sottovalutata, recuperata qui attraverso le voci dei protagonisti, in un quadro vivido e dettagliato.
Entrambi giornalisti e storici, Avagliano e Palmieri sono autori di varie pubblicazioni sulla storia dell’Italia fascista e hanno firmato insieme diversi volumi, tra cui, con Il Mulino, “L’Italia di Salò” , “1948. Gli italiani nell’anno della svolta” (Premio Fiuggi Storia 2018) e “Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni (1945-1947)”,
Avagliano, perché quella dei militari italiani nei lager nazisti fu «una resistenza senz’armi»?
‹‹A differenza dei deportati politici o razziali, gli internati militari ebbero la possibilità di salvarsi e di rientrare in Patria. Sarebbe bastato che aderissero alla Repubblica Sociale. Ma la gran parte di loro, oltre l’80%, preferì la prigionia, il lavoro coatto, le torture verbali e fisiche dei carcerieri nazisti e spesso la morte (50mila morirono nei lager) piuttosto che continuare a combattere a fianco a Hitler e il residuo fascismo. Non a caso uno di loro, Giovannino Guareschi, definì se stesso e gli altri internati che avevano detto no “volontari del lager”. La loro non fu una resistenza armata ma fu comunque importantissima. Immaginatevi se 600-650 mila soldati avessero aderito alla Rsi. Forse la sorte del conflitto non sarebbe cambiata, ma sicuramente la campagna di liberazione d’Italia sarebbe durata molto più a lungo e ci sarebbero stati più morti, più stragi e una guerra civile ancora più sanguinosa››.
Una pagina di storia a lungo trascurata e sottovalutata. Qual è stata per voi l’importanza del poter attingere a una documentazione in gran parte inedita e privata?
‹‹Assolutamente decisiva. È stato come leggere nel pensiero dei protagonisti dell’epoca i loro sentimenti, le loro passioni, le illusioni e disillusioni, le motivazioni della scelta, e guardare con i loro occhi l’orrore della prigionia e del lavoro coatto. La modalità del racconto che abbiamo scelto ci ha consentito fra l’altro di approfondire anche la prova umana affrontata durante l’internamento. Non dimentichiamoci che Hitler inventò la qualifica di “Imi” per i nostri militari da un lato per giustificare che centinaia di migliaia di soldati di una nazione alleata venissero trattenuti nel territorio del Reich, e dall’altro per punire gli italiani come traditori, non applicando loro la Convenzione di Ginevra che prevedeva l’assistenza della Croce Rossa Internazionale e il divieto di lavori forzati››.
In che misura questo ha permesso di scoprire molti aspetti poco noti della vita nei lager e nei campi di lavoro coatto e di punizione?
«I diari e le lettere degli internati, in gran parte inediti o poco conosciuti e fornitici dai loro familiari, insieme ad altra documentazione coeva (giornali, filmati dell’Istituto Luce, relazioni delle autorità e della censura), ci hanno consentito di raccontare diversi aspetti nuovi o scarsamente noti, come alcuni episodi di resistenza attiva (ad esempio l’organizzazione Fiore Giallo Imi a Linz, in Austria), le storie di sesso e talvolta d’amore intrecciate dai militari italiani con donne polacche, francesi e tedesche, in qualche occasione sfociate in matrimoni dopo la guerra, le violenze e gli eccidi compiuti dai tedeschi, la complicità prestata a volte dagli stessi optanti italiani, il rapporto degli internati con i loro familiari››.
Tra i militari internati ci furono molti soldati romagnoli, di cui nel libro sono citati brani di lettere e diari. Prigioniero del lager di Fallingbostel, il sottotenente Armando Ravaglioli (1918- 2009), giornalista e scrittore di Rocca San Casciano (FC) scriveva come per la prima volta tra i reticolati si parlasse anche liberamente di temi fino ad allora banditi: di libertà, di democrazia, di diritti alla persona, di rispetto dei popoli.
Palmieri, testimonianze come questa si possono considerare segnali di una resistenza intesa come slancio verso un’Italia che sapesse ritrovare la dignità perduta a causa del fascismo?
‹‹La gran parte dei militari italiani internati era nata e cresciuta sotto la dittatura e aveva assorbito la cultura imposta dal regime, del “credere, obbedire e combattere”. Per combattere l’annientamento individuale tipico del sistema concentrazionario nazista dietro i reticolati, i militari si impegnano in discussioni, dibattiti, lezioni di storia e altre materie, rappresentazioni teatrali, giornali e così via. E proprio in questo modo avviene la definitiva presa di distanza dal fascismo e si comincia a parlare di democrazia, di libertà e perfino di unione europea per ricostruire il futuro di un paese travolto da vent’anni di dittatura e da una guerra terribile. Anche per questo quella degli Imi può essere definita una resistenza senz’armi››.