Venturi: il commissario Covid ha scritto un libro. Il 7 a Rimini
RIMINI. Un’antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e scapparono spaventati. Mentre correva, il leone vide un colibrì che stava voltando in una direzione sbagliata. «Dove credi di andare? – disse il re della foresta –. C’è un incendio, dobbiamo scappare». Il colibrì rispose: «Vado al lago a prendere acqua da buttare sul fuoco». «E credi di poter spegnere un gigantesco incendio con qualche goccia d’acqua?». E il colibrì rispose: «Faccio la mia parte».
È il 4 marzo 2020 quando l’assessore regionale alle Politiche per la salute, da poco insediato, si ammala di Covid-19 proprio allo scoppio dell’epidemia italiana. L’assessore uscente, Sergio Venturi, viene richiamato per gestire l’emergenza sanitaria come Commissario ad acta. Da quel giorno e fino al 9 maggio, oltre che essere il braccio operativo della lotta al Coronavirus, Venturi diventa il punto di riferimento degli emiliano-romagnoli grazie alle sue dirette Facebook. Tutti i giorni alle 17.30, dalla sua abitazione, informa, incoraggia, striglia i cittadini nei giorni più bui. Risponde alle domande, sostiene chi perde i propri cari. È per molti il “colibrì” che con le sue parole calma le angosce, spegne le paure.
Quei due terribili mesi di lotta in prima linea sono diventati ora un libro: una narrazione emozionante, serrata e umanissima che Venturi presenterà il 7 ottobre alle 21 al cinema Fulgor di Rimini in compagnia del sindaco Andrea Gnassi e della presidente dell’assemblea regionale Emma Petitti. La goccia del colibrì. Fare la propria parte durante e dopo l’epidemia è il titolo di un racconto vero che ci aiuta a capire quanto è accaduto e quanto possiamo fare, insieme, per il nostro destino.
Venturi, partiamo dal libro. Lei ha raccontato in modo unico e personale una tragedia che ci ha colto tutti di sorpresa e ha saputo spiegare bene la dura prova che il sistema sanitario ha dovuto affrontare. Cosa l’ha spinta a scrivere questa esperienza e cosa dovrebbe restare al lettore?
«Su cosa dovrebbe restare le chiavi di lettura possono essere diverse, io ho la mia. Partiamo da una riflessione: siamo soliti dire che impariamo dagli errori del passato e che la storia non si ripete, invece tendenzialmente siamo degli “sbagliatori seriali”. Non è la prima volta, purtroppo, che ci troviamo di fronte a una epidemia o a un virus che fa il salto di specie: ce ne sono stati tanti e alcuni fortunatamente non si sono neanche manifestati per intero. L’influenza aviaria, per esempio, è stata quasi sempre al suo posto, magari meno la Sars, ma non ce ne siamo accorti, o quasi. Quello che è importante capire ora, è che viviamo una fase in cui o decidiamo di dare un serio colpo di volante, oppure sì, questa volta possiamo anche farcela ma ci ritroveremo comunque ad affrontarne altre. Ma come questa pandemia ci ha insegnato, quando non ti aspetti una prova del genere, non sei preparato ad affrontarla».
Non è facile cambiare stili di vita.
«No, cambiare è difficile, ma il messaggio principale del libro è proprio quello dell’ultimo capitolo, “Il mondo come lo faremo”: tutto comincia qui, con un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, dagli amministratori ai cittadini».
Servirebbe una consapevolezza che non tutti hanno.
«Serve consapevolezza e impegno. Qualcuno già lo sta facendo più di altri: a Rimini per esempio è già stato fatto qualche passo avanti e anche il turismo ha preso un passo differente: nessuno è stato fermo a sperare che le cose tornassero come prima».
A proposito dell’estate che ci siamo appena lasciati alle spalle: non sono mancate critiche al fatto che pur di far ripartire l’economia molti non hanno osservato le misure dirette a prevenire la diffusione del virus. E i contagi sono tornati a salire. Abbiamo sbagliato?
«Dividiamo le due cose. Sul piano sanitario quello che dobbiamo fare lo sappiamo: mascherina, distanziamento e lavarsi spesso le mani. Anche gli ospedali hanno imparato a fare meglio di quello che facevano a febbraio, tante terapie danno risultati, presto arriveranno i vaccini…».
Presto?
«Beh, se qualcuno se li aspettava prima del 3 novembre, giorno delle elezioni presidenziali negli Usa, come annunciato da Trump, forse dovrà aspettare un po’ (ride). Lo scorso aprile si diceva che per il vaccino ci sarebbe voluto un anno, è verosimile sia così. Non è detto poi che sarà come quello dell’antipolio, che ci lascerà un’immunità tutta la vita: probabilmente sarà più simile a quello antinfluenzale, da ripetere ogni anno, ma se così fosse non ci vedo niente di scandaloso. Comunque sì, ci sarà. Quanto alla cura, buone notizie arrivano dallo studio sugli anticorpi monoclonali, da utilizzare solo quando ce ne sarà bisogno; non dimentichiamoci che più del 90 per cento delle persone che contraggono il virus non ha sintomi. Per quanto riguarda invece la risalita dei contagi, mi sembra che abbiamo sbagliato ben poco. Basta confrontarci con il resto d’Europa; per quanto ci siamo scatenati – io no per la verità (ride) –, non è andata male».
Allora perché i numeri dei positivi al Covid aumentano?
«Quello che osserviamo oggi non è certo dovuto ai vizi estivi, probabilmente rappresenta quanto sta accadendo in tutto il mondo. Inoltre è finita l’estate e si sta più in casa. Stiamo parlando di cifre al momento non drammatiche. Siamo al 1° ottobre (giorno dell’intervista, ndr) e ieri in Emilia-Romagna si registravano 14 ricoverati in terapia intensiva, quando siamo arrivati ad averne 500».
Molti hanno accusato i giovani di non aver assunto comportamenti responsabili quest’estate.
«Abbiamo compresso i ragazzi per mesi, non abbiamo dato loro neppure lo sfogo della scuola, come pensare di non lasciarli uscire e ritrovarsi? Qualche adulto intima ai giovani di stare a casa: vorrei ricordare che quest’inverno ho visto anziani sotto lockdown andare a fare la spesa anche quattro volte al giorno pur di uscire. Le persone meno responsabili sono una minoranza. Oggi vedo studenti a scuola con le mascherine e se qualche spiritoso arriva senza viene poi invitato a indossarla. Ormai sono passate tre settimane dall’inizio della scuola: alcune classi sono state messe in quarantena, però a conti fatti quelli trovati positivi sono stati pochi».
Quali altri focolai dobbiamo tenere sotto controllo?
«Molte trasmissioni avvengono purtroppo in famiglia. Dal punto di vista sanitario è questo che dobbiamo controllare».
Ma in famiglia è difficile mantenere le distanze.
«È impossibile. Si può però evitare l’errore che abbiamo fatto lo scorso inverno, cioè vivere nello stesso appartamento con una persona positiva e con sintomi. Poiché non tutti hanno una casa grande, suggerisco sempre di trasferire la persona colpita in strutture apposite, e ce ne sono, altrimenti diventa una catena di Sant’Antonio».
Il premier Conte chiederà di prolungare lo stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021. Non sembra un buon segnale.
«Credo sia una scelta preventiva, anche perché siamo circondati da Paesi che stanno peggio di noi. Per quanto ci riguarda, va detto che in Emilia-Romagna siamo bravi: va peggio al sud. A oggi siamo una delle regioni più virtuose».
Facciamo un salto indietro e torniamo alle sue dirette Facebook: se l’aspettava di essere seguito con tanta partecipazione? Quando ha capito che era fondamentale saper comunicare la tragedia in corso con familiarità e allo stesso tempo autorevolezza?
«Non c’è stata alcuna “recitazione” nelle dirette Facebook. Era però importante evitare di comunicare con modi sbagliati, noiosi o fastidiosi. Quello che più serviva era essere vicini, e questo per me non è stato difficile perché le paure che avevano gli altri erano anche le mie. Era importante non nascondere nulla e ho raccontato le cose per come le sapevo. Che mi seguivano in tanti l’ho capito dalle reazioni delle persone che mi scrivevano su Messenger o dalle lettere che mi arrivavano. In quei giorni c’era tanta angoscia e un grande bisogno di farsi compagnia. Anche per me, quei tre quarti d’ora di diretta erano la cura della giornata».
La soddisfazione più grande?
«Mi sono sentito felice quando ho avuto la consapevolezza che l’emergenza stava finendo, o che comunque le cose andavano meglio. È stato allora che ho chiesto al presidente Bonaccini di smettere: volevo che le persone si rendessero conto che era arrivato il momento di ripartire. Non era così scontato: alcune, nonostante il lockdown fosse finito, per paura del virus continuavano a non uscire di casa. Mi sono detto: la gente non può più chiedermi la mano per attraversare la strada; la strada abbiamo imparato ad attraversarla insieme. Se lo facevo io, lo potevano fare anche loro. Questo era il messaggio più importante da trasmettere in quel momento. Sono stato contentissimo di aver finito il 9 maggio in questo modo».
Cosa ha imparato da tutta questa storia, anche umanamente?
«Beh, intanto che un servizio sanitario come il nostro non ce l’ha nessuno e quindi teniamocelo stretto. Poi, che bisogna mettere in fila le cose per il valore che hanno; purtroppo noi, come ho già detto, non impariamo mai. Vedo in giro ancora tanta aggressività. Questa pandemia ci dovrebbe far capire che siamo una comunità e che solo insieme possiamo farcela».