Rimini tra 800 e 900: mogli a teatro e mariti a giocare d'azzardo

Cultura

Sul periodico Italia del 10-11 marzo 1886 troviamo un trafiletto sui teatri della città che merita i nostri riflettori. «Rimini oggi – sottolinea il giornale – ha 12 teatri e tutti (meno tre) aperti! Diciamo dodici, ma forse nella quantità, può darsi che ve ne sia qualcun altro che non conosciamo. E ne diamo l’elenco. Primissimo il Teatro Vittorio Emanuele. Poi il Teatro del Circolo Drammatico Musicale, sempre gremito e in progresso, e quello del sig. Bertozzi. Seguono tre dell’ordine clericale o simile: quello del Seminario, l’altro del Pio Istituto Venturini e quello delle Orfane, nei Servi. Poscia tre in case private: quello del palazzo Cima ove si recitò l’altra sera, quello del Palazzo Martinelli (ove non entravano uomini, ci dicono) ed una parodia di teatro in casa Bianchi, ove non entrano che i parenti più stretti. Infine tre oggi non aperti: quello di casa Battaglini, di casa Graziani e dello Stabilimento. È una vera monomania questa di recitare, che invade la nostra cittadinanza: in alcune case mettono assieme due tavole per un palco alto un palmo, quattro fogli di carta con molto rosso, per due quinte, ed una coperta qualunque da sipario e il teatro è fatto. Peccato che il graziosissimo di casa Battaglini quest’anno taccia. … Ma noi dobbiamo mandare i nostri più sinceri e più caldi rallegramenti al Seminario pel coraggio avutosi quivi in questi giorni da quei signori abati di recitare niente di meno che I due sergenti e recitarli senza donne! Un abate ha fatto la parte della moglie… sono cose dell’altro mondo queste, ma pure accadono in questo anno di grazia 1886».
Il palco, la distrazione più gradita
Dalla lista dei teatri apprendiamo non solo quanto grande fosse a quel tempo il piacere della recitazione, ma anche quanto graditi fossero gli spettacoli scenici. In una piccola città di provincia, non ancora coinvolta dal turbinio turistico e povera di divagazioni, il palcoscenico era la distrazione più gradita e partecipata.
E a proposito di distrazioni, se negli anni Ottanta dell’Ottocento i divertimenti erano pochi, all’inizio di quel secolo erano ancora meno. Le donne, totalmente dedite alla casa e alla famiglia, non avevano grilli per la testa; gli uomini, invece, qualche sfizio se lo permettevano: di tanto in tanto uscivano la sera per incontrare amici e soprattutto per giocare a carte. Di questa vita semplice e un po’ monotona Nicola Giangi (1746-1818), un mercante di stoffe e cereali, e in seguito anche suo figlio Filippo (1783-1846), si sono divertiti a svelare i capricci. Il loro Diario – un manoscritto custodito nella Biblioteca Civica Gambalunga – racconta con una prosa molto semplice, priva di fronzoli letterari, il chiacchiericcio della quotidianità riminese dei primi decenni dell’Ottocento: aneddoti, dal sapore smaliziato e persino boccaccesco, che mettono in luce i piccoli segreti di famiglia.
Dalle pagine dei due ciarlieri cronisti riprendiamo – per dedicarlo a questa rubrica di “Fatti e personaggi della cronaca riminese tra Ottocento e Novecento” – un simpatico episodio avvenuto durante il periodo di Carnevale, quando l’uscita per andare a teatro era, da parte delle signore della buona società, lo svago più atteso e sospirato dell’anno. La gustosa storiella – che troviamo ripubblicata anche sulla rivista Ariminum dell’agosto 1929 – si svolge nello scantinato della farmacia Bilancioni. Qui, a detta del Giangi, erano soliti riunirsi alcuni signori fra i più facoltosi della città per cimentarsi alla zecchinetta. Già dal nome del gioco si capisce il genere di fiche che girava sui tavoli.
Uomini nel retrobottega
Dopo aver scortato le rispettive mogli a teatro, questi galantuomini con una scusa qualsiasi si eclissavano dalle consorti e raggiungevano i compari nel “famigerato” retrobottega dimenticandosi delle proprie signore; tanto che al termine delle rappresentazioni, queste erano costrette a tornarsene a casa accompagnate dal cameriere: una procedura a quei tempi molto inusuale. Alcune di esse, seccate per il ripetersi dell’“inconveniente” e non osando rammaricarsi coi mariti, mossero «formale lagnanza» al commissario del governo. Una sera, mentre la partita a carte si svolgeva tranquilla come al solito nel funghetto – così era chiamato lo scantinato della farmacia –, il funzionario si presentò e senza tanti preamboli fermò il gioco e fece la paternale a tutti i mariti, giovani e vecchi, minacciandoli addirittura di arresto se la cosa si fosse ripetuta. Quei nobili signori, intascate le monete d’oro che avevano sui tavoli, ascoltarono la ramanzina senza fiatare, ma quando giunsero a casa esplosero di rabbia con le rispettive spose, che per varie sere – a detta di Giangi – furono costrette, loro malgrado, a rinunciare al teatro.

(riproduzione riservata)

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