Le pestilenze nei libri, paradigma della nostra impreparazione

Cultura

RAVENNA. In tempi di epidemia viene naturale tornare con il pensiero ai testi che, in varie epoche, hanno riflettuto sulla malattia come strumento di analisi sociale, storica e antropologica.
“I promessi sposi”
Il primo e più celebre titolo che compare alla memoria dei più è “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, con la sua descrizione della peste che colpì storicamente Milano e l’Italia nel 1630. Scrive Manzoni che «in principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio».
E questo procedere del pensiero si applica anche alle idee e alle parole, tanto che l’autore suggerisce: «Si potrebbe però tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare».
“La peste” di Camus
Poco più di un secolo dopo, Albert Camus scrive il suo romanzo più celebre, “La peste”, dove ancora una volta l’epidemia diviene metafora antropologica: «Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti. Finora, nonostante la sorpresa e la preoccupazione suscitate da questi eventi straordinari, ognuno dei nostri concittadini aveva continuato come poteva a dedicarsi alle proprie occupazioni, al proprio posto. E così doveva senz’altro essere in seguito. Ma dopo che furono chiuse le porte, tutti si accorsero, compreso il narratore, di essere sulla stessa barca e di doversene fare una ragione. Così, per esempio, un sentimento privato quale la separazione da una persona amata divenne improvvisamente, sin dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme con la paura, il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo di esilio».
“Ultimo del colera”
Si inserisce in questa riflessione l’ultimo scritto di Mario Augusto Battistini, che l’editore ravennate Ivan Simonini ha recentemente portato all’attenzione. Il romanzo “Ultimo del colera” (Il Girasole), uscito postumo nel 1995, racconta l’epidemia di colera che imperversò a Ravenna dal 12 dicembre 1854 al 9 novembre 1855, causando 1.677 morti su una popolazione di 50mila abitanti: un flagello che arrivava ultimo in una serie di drammatici primati per la città. A metà Ottocento, infatti, Ravenna vantava il primato per la scarlattina, il secondo posto per il tifo e il terzo (dopo Roma e Pisa), per la polmonite.
Questa la cronaca dei fatti, riportata da Simonini: «Dopo il primo caso del dicembre 1854, il morbo asiatico continuò sì a uccidere, ma con decrescente vigoria, concedendo addirittura un bimestre di pausa da metà gennaio a fine marzo 1855, quando la subdola illusione lasciò il posto a un'improvvisa e progressiva recrudescenza: 15 morti in aprile, 60 in maggio. Il 6 giugno l’Arcivescovo chiude le scuole pubbliche. Ma bisogna aspettare luglio per il primo “avviso” municipale. Si persero cioè diversi mesi prima di adottare misure (più o meno come oggi). In luglio già non si vede nessuno per strada. In compenso cominciano a pullulare gli incendi abusivi ovunque poiché si spera che il fuoco annulli il “vibrione” bruciando i beni posseduti dalle vittime che naturalmente sono più in città che in campagna. Per disinfestare gli ambienti le autorità consigliano il cloruro di calcio. Come oggi, anche allora gli esperti litigano, a volte furiosamente, tra di loro, lasciando irrisolto l’enigma se sia un’epidemia o una pandemia e di quale sia l’origine del contagio, controversia sbrigativamente “risolta” colpevolizzando un galeone turco che aveva scaricato grano, tabacco e dolciumi nel porto della città».
Ma anche il racconto di Battistini nasconde in sé una lucidità che va oltre la cronaca e mostra come le crisi siano il momento per cogliere le contraddizioni del sociale: lo stesso titolo del libro fa riferimento a un certo Muti, registrato nell’ottobre 1855 come “ultimo del colera”; pochi giorni più tardi morì di colera a Ravenna Luigi Dall’Oglio, arrivato in città dal lughese in cerca di lavoro, «perché il colera non c’era più».
Mario Augusto Battistini è stato fondatore del settimanale “Il nuovo ravennate”, caporedattore della cronaca di Ravenna per “L’Unità” e capufficio stampa del Comune di Ravenna.

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