Pennabilli, l'associazione Guerra premia Emilio Ambasz

Cultura

Tonino Guerra ha dato materia alla poesia come Emilio Ambasz ha dato poesia alla materia: «È una bella frase» commenta Ambasz, per il quale l’architettura non deve essere solo pragmatica ma suscitare emozioni, commuovere, parlare al cuore.

Guerra un poeta pragmatico, Ambasz un architetto visionario. Non si sono mai incontrati, ma domani a Pennabilli il grande architetto argentino potrà visitare le opere di Guerra sparse nel museo diffuso dei “luoghi dell’anima”.

La seconda giornata della manifestazione “Gli antichi frutti d’Italia si incontrano a Pennabilli” si apre alle 11 all’Orto dei frutti dimenticati con l’omaggio a Emilio Ambasz, genio versatile e multiforme dell’architettura e del design internazionali al quale sarà consegnato il premio “Una foglia contro i fulmini”.

Emilio Ambasz, trova delle affinità tra la sua concezione dell’architettura e il linguaggio poetico di Guerra?

«Certo, conoscevo le opere di Guerra e ci unisce una percezione poetica della realtà. C’è poi una similitudine tra quello che faccio io, ciò che faceva Tonino Guerra e quello che scrive Lucrezio nel De rerum natura. Esiste la possibilità di creare similitudini in ogni gesto poetico perché ci muoviamo in un campo ineffabile, suggestivo, non misurabile in una sola maniera».

Il quesito è banale ma doveroso: la poesia può influenzare l’architettura?

«Quando l’architettura è arte, certo. Il grave problema è quando non commuove, in quel caso non è poesia. In molti mi dicono che quello che faccio è poetico. Però mi risulta spesso difficile spiegare come può in un poeta sorgere la poesia. Io creo immagini dentro alle quali possono esserci significati o idee che hanno una validità poetica. E questo mi succede anche se per mestiere non sono un poeta. Sono sicuro che sia stato lo stesso per Guerra, anche lui si sorprendeva delle parole trovate: è il risultato più valido e genuino».

Oggi lei visiterà Pennabilli e forse anche il giardino pietrificato a Bascio, ideato trent’anni fa da Guerra: sette grandi tappeti di ceramica, danneggiati dagli agenti atmosferici, che necessitano con urgenza di un restauro. Aderirebbe a un eventuale appello rivolto alle associazioni italiane degli architetti perché questa opera sia da loro adottata e se ne intraprenda il recupero?

«Beh, dico già di sì anche senza averla vista, perché ogni opera di questo genere deve essere restaurata e mantenuta. Molta della mia architettura è un modo per riconciliarsi con la natura. I clienti mi chiedono: e la manutenzione? Io rispondo (con una metafora che si lega all’opera di Bascio, ndr): volete un giardino? Ci vuole un giardiniere. Io mi sento a mio agio in Italia perché i giardini vengono apprezzati ma mi sento ancora più a mio agio in Giappone dove la cultura si impegna fino in fondo per mantenere un giardino. Prendo ad esempio il palazzo che ho realizzato a Fukuoka: quattordici piani ricoperti di verde. Sono trascorsi già venticinque anni ma si presenta meglio oggi di quando fu inaugurato. Quindi sarei sorpreso se le associazioni degli architetti non sentissero la necessità di intervenire a Bascio. E poi in Italia avete una tradizione di grandi restauratori, i migliori al mondo per l’architettura e la pittura: forse il grave problema italiano è che avete troppe opere da conservare (ride)! Siete troppo ricchi di opere ma non tanto ricchi da poterle restaurare. Poi c’è il problema della committenza pubblica italiana, comune ad altri Paesi. In Italia purtroppo c’è troppa tradizione del “politicare”, certo non siete gli unici al mondo ma c’è una tradizione unica di principini, capitani di ventura, e del pensiero “a me che cosa ne viene?”».

Lei è definito il pioniere e profeta della green architecture, precursore di progetti recenti come il Bosco Verticale a Milano. Nel caso però del suo progetto di circa trent'anni fa per il lungomare di Rimini, la sua proposta fu forse troppo anticipatrice e per questo non compresa e accettata?

«No. La prego di scrivere quello che le dico. Io presentai il progetto al gruppo che formava il pentapartito (la giunta di Rimini di quel periodo, ndr). Quando presentai il progetto era presente anche l’assessora all’Urbanistica della Regione Emilia-Romagna, Felicia Bottino, che è architetta e mi disse che era una proposta bellissima, una meraviglia. Io molto ingenuamente chiesi: “Allora lei lo approva?” e mi fu risposto di no; chiesi il perché e lei mi disse “perché noi non siamo nel pentapartito”. Prima le ho parlato di queste piccole lotte intestine… Il progetto continua a essere valido, e non venne accettato solo perché non erano nel pentapartito. E non importa quanto ne potesse beneficiare la regione Emilia-Romagna».

«Le dirò una cosa in più – aggiunge –: io usai la parcella per il mio progetto per pagare uno studio di economia che ne analizzasse i costi e quanto avrebbero dovuto pagare i titolari degli stabilimenti balneari: in due anni avrebbero pagato tutta la costruzione. E anche la Capitaneria di porto era d’accordo sul progetto. Ecco, questa è la ragione reale per cui il progetto non venne accettato».

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