Libri: Graham Greene - Il terzo uomo

Rollo Martins, scrittore di western dozzinali, subito dopo la guerra va a Vienna, una città in condizioni disperate, divisa in zone sotto il controllo dei quattro Alleati. Lo ha invitato, perché scriva un servizio giornalistico, il suo migliore amico, Harry Lime. Solo che lo trova morto, o almeno partecipa al suo funerale. Qui incontra un funzionario di Scotland Yard, Calloway, il quale, con i suoi sospetti infamanti, spingerà Rollo a indagare sulla fine dell’amico…

Pubblicato da Graham Greene nel 1950, “Il terzo uomo”, che torna ora in libreria grazie a una nuova edizione curata, per Sellerio, da Domenico Scarpa, si configura come un’opera del tutto autonoma rispetto al leggendario film diretto da Carol Reed nel 1949. Un piccolo capolavoro romanzesco che, ancora oggi, colpisce per la misura che caratterizza la costruzione dei personaggi (anche quelli minori, “tratteggiati fisicamente e caratterialmente con felicità impressionistica”); per la capacità che ha lo scrittore inglese di imbastire una trama su più livelli; per una scrittura, che evidenzia una forte discontinuità tra il linguaggio usato nei dialoghi e il tenore delle descrizioni e delle riflessioni, in grado di mescolare stili, generi e voci.

Era febbraio e i becchini avevano dovuto usare dei trapani elettrici per spaccare la terra gelata del Cimitero centrale di Vienna. Era come se perfino la natura facesse del suo meglio per rifiutare Harry Lime, ma infine riuscimmo a cacciarlo giù e a mettergli sopra un po’ di terra, zolle dure come mattoni. Adesso era ben sigillato, e Rollo Martins svicolò in fretta come se le sue gambe, lunghe e un po’ scoordinate, volessero mettersi a correre, mentre lacrime da ragazzino scendevano lungo la sua faccia di trentacinquenne. Rollo Martins credeva nell’amicizia, e quello che successe dopo fu per lui un colpo più grave di quanto lo sarebbe stato per voi o per me (voi perché avreste subito pensato a una svista, io perché una spiegazione razionale - sbagliata, certo - mi sarebbe venuta in mente). Se soltanto fosse venuto a parlarmi subito, ci saremmo risparmiati un sacco di guai.

Se volete capire questa storia strana e un po’ triste, dovete almeno farvi un’idea dello sfondo: la città di Vienna, rasa al suolo, devastata, spartita in zone dalle Quattro Potenze vincitrici: la zona russa, la zona inglese, l’americana e la francese, regioni delimitate solo da cartelli e, nel centro città, circondata dal Ring con i suoi gravi edifici pubblici e le sue statue arroganti, la Innere Stadt, controllata da tutte e quattro le potenze. Nella Città Interna, una volta così elegante, ciascuna potenza, a turni mensili, assumeva la “presidenza”, come si diceva, e l’ordine pubblico cadeva sotto la sua responsabilità. Di notte, se eravate abbastanza sciocchi da buttare via i vostri scellini austriaci in un locale notturno, potevate star sicuri di vedere all’opera la Pattuglia Internazionale: quattro poliziotti militari, uno per ciascun esercito, che comunicavano tra loro, se pure comunicavano, nella lingua del comune nemico. Non so come fosse Vienna tra le due guerre e sono troppo giovane per ricordare la vecchia Vienna con la musica di Strauss e quel suo fascino scontato, fasullo; per me è solo una città di rovine poco dignitose che in quel mese di febbraio si erano trasformate in grandi formazioni di neve e di ghiaccio.

Greene racconta ne “Il terzo uomo” una vicenda, ambientata nella Vienna del 1948, nella quale ad una cupezza esistenziale di fondo si affiancano tutta una serie di problematiche etiche. Lo scrittore di Berkhamsted immerge i protagonisti della storia in una dimensione che fa dell’ambiguità il proprio segno distintivo, arrivando a delineare un universo in cui - sebbene il libro celi in profondità un riverbero etico tutto interno alla dottrina giansenista - non abitano personaggi “veramente” morali.

“Greene è uno di quei grandi autori - ha scritto Emiliano Morreale - che danno un piacere insieme immediato e sopraffino: forse solo Simenon e Soldati (tutti a modo loro ‘giallisti’, erotomani e cattolici, e dunque gran conoscitori dell’animo umano, maschile e non), alla fine, hanno saputo unire così bene gusto del genere e profondità di moralisti”.

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