Letture sotto l’ombrellone: una panchina d’autore per racconti di vita al chiaro di luna

Cultura
  • 01 settembre 2025

FABIO CASOLI

Estate, un caldo opprimente avvolgeva la città; le lunghe giornate di sole cocente avevano costretto la maggior parte della popolazione a una vita diurna ritirata all’interno degli edifici, all’ombra di potenti condizionatori, la loro aria fresca era divenuta l’unica, indispensabile quanto magra consolazione di un ménage triste e consolidato, consumato quotidianamente tra casa e lavoro.

Non per tutti ovviamente la vita si presentava così spenta e monotona, ma sicuramente lo era per me e per chi come me, che avendo da tempo superato gli “anta”, aveva perso la propensione per energici e dispendiosi slanci emozionali verso la movida, preferendo ed apprezzando piuttosto un quieto riposo, corroborante e salutare: perfetto adiuvante per poter continuare il percorso della vita senza esserne sopraffatto dalla fatica e dalla tipica stanchezza che il caldo intenso, perdurante da molti giorni, inevitabilmente apporta.

Un dì, la briosa generosità di un giocoso vicino, in una delle sue molteplici e mutevoli manifestazioni, prese forma nel restauro di una vecchia panchina semi-abbandonata. La stessa era stata banalmente e maldestramente posizionata molti anni prima da qualche operaio comunale su di un marciapiede, con affaccio ultra-nazional popolare: dava infatti sul parcheggio del quartierino, le cui macchine erano posteggiate a non più di un metro dai suoi basamenti. Divenuta vecchia, mai manutenuta, con il legno sfibrato, ingrigito e pieno di stecche pronte a ferire il primo malcapitato che avesse tentato di sedersi, era finita per non esser più utilizzata, e prossima ad essere demolita. Impegno ed ingegno del beniamino la resuscitarono: fece fare delle assi di legno nuove ed appena dipinta di un bel bianco brillante, sbrilluccicava piacevolmente alla luce abbagliante del sole estivo; non soddisfatto del risultato, posizionò pure, alla sua destra e dalla sua sinistra, due bei vasi fioriti, bastoncini profumati all’essenza di rose, e di tanto in tanto stese persino un tappeto rosso di moquette, un vero e proprio red-carpet, quasi dovesse essere di invito a ospitare il jet set cittadino del momento; finito il lavoro di restauro il risultato fu di tutto rispetto: una vera e propria panchina d’autore.

Come spesso accade al veder qualcosa di diverso dal consueto, per giunta non congruo e stridente con il contesto, furono in molti a notarla; una sorta di salottino privato arredato in piazza, un angolo di nuovo, fresco, pulito e pure profumato in mezzo all’asfalto cocente.

Appena terminata, insomma, fu d’impatto alla vista come potrebbe esserlo per intenderci il sopraggiungere d’una bellissima ragazza dal reparto di geriatria. La pietra miliare era posata. Fu così che ebbe inizio, solo ciò che poi venne apostrofato come il panchinificio. Qualche sera dopo l’innovazione, stanco dalla giornata di lavoro e rinfrancato dalla tregua serale che il caldo concedeva, uscii di casa per sedermi sulla novità del quartierino. Trovai subito conforto, ulteriormente rinvigorito dalla leggera brezza che scendeva dalla collina adiacente;il tramonto era già completo e il rumore del giorno si era tramutato in leggero brusio. Il riposo del corpo stava estendendosi anche alla mente quando ad un tratto, probabilmente con motivazioni analoghe alle mie, venne a sedersi accanto a me un vicino, dirimpettaio da oltre un ventennio, col quale di tanto in tanto ci si scambiava un saluto o poco più.

Era coetaneo o giù di lì, s’iniziò ben presto a parlare del più e del meno, e dalle solite frasi di rito (“famose” quelle sul tempo), quel “parlocchiare” distratto e di facciata, divenne rapidamente via via più interessato e fitto. L’aria fresca che nel frattempo s’era formata, donava linfa e nuovo vigore al dialogo stesso. Vennero presto a tiro i ricordi di scuola comuni, le conoscenze incrociate, il lavoro, la famiglia, una dialettica crescente e fluente che armonicamente ora avanzava ed ora retrocedeva sull’asse del tempo, in una sinuosa moviola di racconti, domande, esclamazioni nei quali si passava agevolmente da un: «Ah ecco si adesso si che ricordo» a un «ma pensa te!», «ah ma allora..!», s’andò avanti per ore, quando a un certo punto, ormai a notte fonda e pur malvolentieri, visto il graditissimo fresco, rincasammo; non prima comunque di darci appuntamento al dì successivo.

Il giorno seguente il rendez-vous venne rispettato, seguendo un po’ il copione precedente, e di nuovo il dì appresso. Col passare dei giorni l’uscita serale, per forza d’inerzia acquisita, divenne naturale, come il compimento d’un obbligo implicito assunto, piacevole s’intende; di volta in volta, furon sempre più frequenti gli incontri con chi, passando di lì, si fermava a far due parole, incuriositi da quell’insolito chiacchiericcio che si protraeva fino a tarda ora; e se all’inizio l’incontro poteva dirsi casuale, con chi ad esempio si trovava di passeggiata con l’amico fido di turno, col tempo divenne tappa fissa, se non addirittura, meta stessa della passeggiata.

Pure dei cani similmente si potrebbe dire: se le prime sere scalpitavano per la sgradita fermata fronte panchina disposta dai legittimi proprietari, dopo un po’ successe anche a loro di non volersi più muover per proseguire, quand’anche il guinzaglio gli avesse imposto il comando. La panchina cominciò a rivelare un’attrazione magnetica, quasi magica, tanto che finimmo spesso per esser interrotti nei nostri discorsi dall’intervento di avventori, si veri e propri avventori della panchina. Fu la volta di chi andava a prender il mezzo al parcheggio, e poi di quelli che vi ritornavano, vicinato, ragazzi, adulti. Ce n’era ormai per tutti i gusti ed età.

Ci rendemmo presto conto d’esser divenuti osti di un’osteria senz’alcol e pure senza osteria, l’esser lì, presenti la sera, tutti i giorni, aveva istituzionalizzato il nulla, anche se poi, a ben pensarci, proprio nulla non era. Quale ne fosse il vero motivo ancora oggi lo ignoro, ma ad ogni modo ci piacque. Tutto sommato eravamo divenuti signori, si, I Signori della panchina.

Ogni sera, aveva i suoi partecipanti, non era più solo un saluto ma nemmeno un incontro, non c’era un’ora fissata né regola precisa alcuna, e se dovessi cercare di concettualizzare potrei dire che il tutto avveniva con geometria variabile, nell’accezione più anarchicamente estesa possibile. Ovvero era indefinito e indefinibile il numero dei componenti, l’ora in cui arrivavano, l’argomento della serata; le uniche costanti erano la presenza mia e del primo vicino che di qui chiamerò per semplicità Mister G. A seconda dell’arrivo del personaggio, l’iniziale dialogo tra me e Mister G, quello che apriva la “panchinata” del giorno, cambiava umore; bastava una parola, uno sguardo del nuovo arrivato perché l’argomento intrapreso virasse, a volte con una velocità e agilità a me fino ad allora sconosciute e (sempre almeno per me) similmente imbarazzanti: ricordo ad esempio una sera quando, in un raro momento particolarmente aulico, si passò dal commento di un passo del De Brevitate Vitae di Seneca a una imprecazione sul governo attuale con tempo inferiore al battito di ciglia, così, con la stessa nonchalance di una derapata felina su sentiero scosceso.

Politica internazionale, filosofia, biografie personali, cronaca, lavori di ristrutturazione, bassifondi dell’anima....cosa mancasse non saprei. Il bello era forse anche quello, non esisteva monotonia e tutto poteva cambiare in un attimo; del resto eravamo all’aperto in un ambiente pubblico, anche se avevo, e forse pure concedevo, l’impressione di esser a casa, lì in quella panchina pulita e “fiorita”. Relativamente agli argomenti trattati, controintuitivamente, fu interessante notare che all’aumentare del numero dei partecipanti, diminuiva il tono e l’importanza della materia in questione; si creava una sorta di minimo comune denominatore che permettesse a tutti di partecipare: sicchè tanti più si era, quanto meno interessante era quel che si diceva.

Nelle sere più affollate, si crearono spesso spassosi siparietti di involontarie scene teatrali, che genuine e spontanee rallegravano non poco i partecipanti; frequenti incomprensioni tra gli astanti mi solleticavano il ricordo Pirandelliano, «E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!» dietro questa reminiscenza, mi si palesava la scena dal vivo, ero lì che assistevo da pubblico non pagante, salvo poi, immediatamente dopo pensare tra me e me: chissà quante volte mi sarà successa la stessa cosa ... e così finivo per sorridere degli altri riflettendo su di me, perché in fondo prima o poi gli altri... siamo noi. Per questo ed altro, in semplicità, si arrivava spesso a delle gran risate riecheggianti agevolmente nel silenzio della notte, che seppur non fragorose, nemmeno erano troppo sussurrate... Mediamente la cosa attraeva e compiaceva chi l’avesse udita o fosse passato in vicinanza, l’atmosfera serena e gioiosa metteva di buon umore chiunque, in particolar modo gli animi sereni; provate infatti anche solo un momento ad immaginare quante volte, dietro dei sorrisi sinceri non v sia venuto a ridere anche a voi, e senza nemmeno saperne il motivo...Mister G e anche io, dovemmo però constatare che non a tutti il riso giova... Per chi frequenta il quartierino le righe seguenti risulteranno del tutto inutili, per gli altri potrei asserire che troppa gioia per qualcuno viene a noia... Si, tra le tante considerazioni del “panchinificio”, dovemmo riscontrare che quella scherzosa, disinteressata e distesa armonia infastidiva, e non poco, alcuni residenti. Non vorrei dirvi quanti fossero, sebbene siano veramente pochi, e perciò mi limiterò nell’elencarli. Vi sia pertanto sufficiente sapere che Il loro numero è molto basso ancorchè superiore ad uno, ed il suo valore non arriva nemmeno al numero dispari successivo. Non varrebbe la pena di farne memoria se non fosse che riterrei utile far conoscere il motivo di tale (ri)sentimento. Capitò diverse volte che questi signori (o per meglio dire, presunti tali) passarono in vicinanza della panchina. Incedevano a testa bassa, con sguardi cupi, a passo deciso, e senza cenno di saluto alcuno, emettendo pure sgradevoli sbofonchi non facilmente traducibili in lingua corrente, sebbene fosse alquanto semplice identificarli come chiari segnali di avversione. Nulla di nuovo del resto, erano già molto conosciuti in zona per via di comportamenti meschini e molesti, che finirono, com’è facile intuire, per renderli isolati e soli, tanta era l’acredine che portavano in corpo. Comprendemmo facilmente che era l’invidia “a mangiarli vivi”, per quel po’ di gioia che poveretti, vedevano e sentivano negli altri, ma che mai avevano avuto la possibilità di assaporare; la loro natura glielo precludeva, il percepire quell’armonia festosa, non faceva altro che esacerbarne la mancanza, ed accrescerne contestualmente il desiderio e l’astio. Ce ne facemmo presto una ragione, e a dire il vero, come contropartita per le loro tante malefatte, la cosa non ci dispiacque affatto, anzi, ad onor del vero, ne fummo pure diverse volte compiaciuti.

La panchina era divenuta piccola per le persone che vi si radunavano, sicchè ci furono sere dove i più organizzati erano arrivati a portare da casa sedie e sdrai, e come appoggio ausiliario, si fece seduta anche un muretto basso che costeggia la panchina. Furono in molti a rispolverar memoria, per assonanza, delle serate passate dai nonni, nelle veglie estive dei tempi andati. Ci capacitammo in fondo presto, che pur per caso, stavamo vivendo e ripercorrendo la stessa esperienza, cinquant’anni dopo.

Nella complessità della vita moderna, dove spesso la forma diviene sostanza, la finzione verità, la solitudine norma, la maschera vestito, ritornare alla semplicità, riscoprendo valori come l’amicizia, la sincerità, la socialità, fosse anche nella banalità m’è sembrato bello. La panchina sta per ritornare, i fiori son già lì. S’è messo dell’impegno, s’è v’è piaciuto ditecelo, se v’abbiam dato a noia, almeno credeteci, che non s’è fatto apposta.

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