Letture: il racconto di Davide Grittani
Verrà un giorno in cui ci daranno via libera, l’agognato annuncio che ci riconsegnerà al mondo che abbiamo chiuso fuori dalla porta. E sarà come tornare a nascere, riprendere a camminare. Ma dovendo stilare una classifica delle manifestazioni d’euforia più temute – dopo quella dei bambini che monteranno sulle bici senza più scendere, degli amanti che correranno qua e là in cerca degli avanzi della loro clandestinità e di quelli che prometteranno di uscire solo per le sigarette senza fare più rientro –, la categoria per cui sono tutti in apprensione è quella degli scrittori. Loro che vivono in perenne quarantena, cosa scrivono quando sono autorizzati a starci, quando nascondersi non è più privilegio ma condizione? Cosa concepiscono, quando le tenebre non valgono solo per loro ma per tutti quelli che gli stanno intorno?
Gli editori non ne parlano per ragioni a metà tra l’etica e l’eleganza, ma sono terrorizzati. Basiti sulla fiducia, sgomenti da quello che prima o poi gli arriverà.
E verrà un momento in cui qualcuno di quei romanzi vedrà la luce. Sarà pubblicato e, purtroppo, anche presentato. Più di una volta, nel tentativo di recuperare un po’ del tempo perso a causa della detenzione. Un lungo tour di verità e dolore durante cui gli scrittori parleranno della loro esperienza, della loro terribile sofferenza – giacché la sofferenza degli artisti è sempre un po’ più sofferta delle altre –, sottoposti a disumane torture dalla quotidianità. Alcuni confesseranno che durante la prigionia sono stati costretti a farsi la moka da soli, altri ammetteranno di essere scesi a patti con la sopravvivenza, imparando a fare e stendere il bucato, a grattarsi la schiena fino al precipizio della regione sacrale, ad affogare innocenti tortellini nella panna, a trasportare confezioni d’acqua due per volta provando l’umiliazione del razionamento. Esercizi per una nuova Resistenza, durante cui straordinari scrittori che hanno fatto la storia della letteratura contemporanea, pur non avendo idea di cosa fosse la vita al di sopra dei pantaloni, sono stati costretti a prenderne atto nel più crudele dei modi. Vivendola.
Già le immagino, e se chiudo gli occhi posso anche vederle, le vetrine delle più importanti librerie. Tappezzate da cima a fondo con le copie dell’ultimo romanzo di Maurizio Stoico, la foto anaffettiva dell’autore ritratto durante l’esilio. Uno scrittore che a dispetto del cognome si tirerebbe volentieri indietro da tutto – dalla sua voce, dalla sua ombra, persino da se stesso –, divenuto l’icona di chi ce l’ha fatta a sua insaputa. Chissà cosa vede in lui, al punto da piazzarlo in ogni premio e trasmissione, quel partito eternamente confuso che l’ha eletto manifesto dell’indecisione e bandiera della mediocrità. E chissà cosa ci vede quel giornale che di Stoico scrive due pezzi a settimana, convinto che dopo tanta sofferenza l’umanità vada in qualche modo risarcita.
Chi ha avuto la fortuna di leggere in anteprima “Abbracciamoci, adesso”, assicura che siamo di fronte a un capolavoro e che mai come stavolta l’enfasi dei blurb sembri giustificata. Pare ci sia un capitolo in cui l’autore si ritrova di fronte alle tapparelle del salone, aggredito dal dilemma se sollevarle o meno. Di solito, a queste faccende ci pensava Giulia, sua assistente personale e agente dai tempi dell’esordio, ma nel separarli la quarantena non sembra aver tenuto conto che a quell’ora esatta, di quel dato giorno, Maurizio Stoico si sarebbe trovato proprio lì. Di fronte alle tapparelle. Chiamato a un regolamento di conti degno dei migliori western, pronto a un duello a cui sarebbe sopravvissuto solo uno dei due. Che fare? Tirarle su o lasciarle lì, a protezione di un’oscurità senza confini?
È stato allora che, tradendo le proprie radici e l’etimo della sua anagrafe, Stoico ha deciso di confrontarsi col lato oscuro della vita. La luce del giorno, praticamente un cesareo per chi come lui da trent’anni si svegliava alle due del pomeriggio. «Uno straordinario ritratto della pandemia – avrebbe scritto di “Abbracciamoci, adesso” quel quotidiano, recensendolo per la trentesima volta –, un’epopea necessaria a capire cos’era diventato il mondo prima che il virus ci costringesse a guardarci dentro».
Può darsi che un giorno dei prossimi, Stoico venga invitato a presentarlo nella libreria vicino casa vostra, accolto da ali di lettori, curiosi, giornalisti ed evasi dalla cattività. E alla fine dell’incontro, quando gli sarà chiesto di rispondere alle domande dei lettori, può darsi che gli dicano «ma lei cosa pensa del sacrificio di medici, infermieri, volontari e forze dell’ordine, cosa pensa uno scrittore di questi eroi senza faccia e talvolta senza stipendio?» Se lo conosco bene, Stoico si lascerà travolgere dalla timidezza, cercherà di nascondere il mento nel maglione a collo alto e con le forze residue risponderà «perché, durante quei giorni hanno scritto dei romanzi anche loro?»