Le lavandaie riminesi tra Ottocento e Novecento

Cultura

RIMINI. Ai tre sicuri e forse anche unici lettori di questa rubrica, che spazia su “Fatti e personaggi della cronaca riminese tra Ottocento e Novecento” – il primo è mio nipote, direttore di questo quotidiano, che mi consente di divagare a ritroso liberamente; il secondo è mia moglie, che con le sue vecchie e suggestive immagini della città mi agevola il compito di dare un senso al passato; il terzo è un amico, stimato professionista e Gran Maestro della Confraternita della Tagliatella di Rimini, che trasferendo queste mie brevi “note” su Facebook tenta di farmele uscire dal giardino di casa –, anticipo che il brano che segue e che introduce l’articolo non è frutto di un guasto del computer, ma l’esatta trascrizione di una lettera inviata da «una lavandera», nell’ottobre del 1892, al «Signor Diretore» del periodico Italia. Per meglio decifrare lo slang della missiva – un originale adattamento, anche se poco convincente, della lingua madre alla lingua dei salotti –, aggiungo che in precedenza, sullo stesso giornale, un abbonato si era lamentato della poca igiene usata dalle lavandaie nell’asciugare il bucato – steso a terra «sui spini» – e della nocività dei prodotti adoperati per la risciacquatura.

«Avendo letto in tel suo giornale – scrive la “lavandera” su Italia il 15 ottobre 1892 – dove che lui dice male delle povvare lavvanderi che invezie non è vera gnente perché sciantano i panni sui spini. Lui donca deve savvere che l’è tuta la colpa della Comuna che non vole che si stendino i pani sui fili o malle corde perché si no i pizardoni ci mettono in multa. E vorrei savere dova che l’è andè a truvè Ala e le comedie e tutte quelle cose che nun povare lavanderi avemo altro da fare da la matena a la sera coi burdelli che piangiono ma chesa. Donca lui che non sintriga di queste cose, l’ha da sapere che gli anno deto malamento e che sono tutte busie quelle di Ala del comedie e del Zoliano che nun cognosciamo gnanca di vista come lo dica pure in tel foglio che nun è vero che nui laviamo i pani con il coleruro dei calci come ci accusano bugiardamente mentre che non è vero gniente e poi se non ci crede che venghi a vedere lui. Che sono tutte infamità. Mi faza la carità di stampare questa lettera come che l’ha stampato quell’altra e così l’haverà fato un ato di incualificabile giustizia per queste povere sgraziate».
Lavandaie «sgraziate» ma oneste
«Povere sgraziate» e anche poco alfabetizzate, le lavandaie. Ma oneste. Sulla loro onestà non ci piove. E per avvalorare questa virtù vado a rispolverare un fatto di cronaca cittadina capitato proprio a una di esse.
«Maria Gasperoni – si legge su Italia di sabato 28 luglio 1883 – è una buona donna della nostra Città, di professione lavandaja. Essa ricevé or fa qualche tempo, dall’Agente di campagna di una nobile casa di Rimini, casa Ripa, diversi abiti invernali da lavarsi. Recatasi giorni sono al torrente Ausa pel lavoro affidatole, immerse una giacca nell’acqua, e risollevandola, vide caderne da una tasca un piccolo involto. Lo raccolse, lo aperse e vi trovò 50 Buoni di banca da £ 5. “La tentazione era grande – sono le parole della buona donna – perché grande è la mia miseria, ed ho cinque figli da mantenere. Erano proprio dieci cartine per ciascuno! Ma quei denari non erano miei e dovevo restituirli al padrone”».
La giusta ricompensa
Avvenuta la restituzione, il trafiletto del giornale mette in luce un diverbio tra la lavandaia onesta e l’agente – ovvero la persona incaricata di svolgere i servizi in rappresentanza dei signori – furbacchione. Questi, infatti, ricevuto dalla Gasperoni il malloppo «credè ricompensarla bastantemente con due lire che la povera donna ricusò», ben sapendo che «a norma di legge avea diritto a cinque lire». Il rifiuto costrinse l’agente ad attenersi alla normativa e a consegnare alla lavandaia la «giusta ricompensa», che – a detta del redattore di Italia – «solo il bisogno fece accettare alla brava Gasperoni».
Con il lieto fine della vicenda possiamo convenire che le lavandaie non avevano dimestichezza con il bon ton – parlavano solo in dialetto e non sapevano usare la penna –, ma conoscevano molto bene le disposizioni di legge e soprattutto sapevano far di conto.
“Saluti da Rimini”
A chiusura del “pezzo” aggiungo una postilla, che ben si accorda con quelle operaie «dell’acqua e del sapone» scomparse con l’arrivo dei moderni elettrodomestici. La loro floridezza, tipica delle arzdore romagnole, e lo stimolante scenario che guarniva il loro faticoso e malpagato lavoro – i lenzuoli stesi ad asciugare sull’erba, i cesti di vimini pieni di biancheria, le tavole di legno per strofinare i panni, la figliolanza sempre a portata di sguardo – hanno sollecitato il ghiribizzo artistico degli editori di cartoline postali. Questi, i cosiddetti “cartolinari”, all’inizio del Novecento fotografavano gli scorci più caratteristici della città con accanto le lavandaie, ben sapendo che la loro presenza incontrava il sentiment degli acquirenti. E così una miriade di queste figurazioni hanno portato i “Saluti da Rimini” in tante città d’Italia e d’Europa. E oggi, grazie a quelle umili donne immortalate in quei cartoncini – accanto al monumentale ponte di Tiberio, al seicentesco ponte sull’Ausa e ai deliziosi villini della foce del torrente – ritroviamo intatto lo spirito del tempo e con esso anche l’orgoglio del nostro fascinoso passato, tanto gradito ai miei tre lettori.
Tra gli editori di questa poetica dell’immagine, considerato addirittura il decano dei “cartolinari”, è giusto ricordare il “grande” Pietro Somigli.

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