La faentina Monica Guerra pubblica "Nella moltitudine"

Cultura

Dopo “Sulla soglia” (Samuele Editore, 2017) Monica Guerra torna a immaginare “Nella moltitudine” (prefazione di Francesco Sassetto, Il Vicolo divisione libri) una poetica segnata dal tentativo di trovare le parole per dire l’assenza, il vuoto, il dopo, le zone d’ombra dove si proietta doloroso e lucido il senso della perdita e della solitudine esistenziale.

La poetessa e traduttrice faentina, presidente dell’associazione Poetry, ha ottenuto nel 2019 il Premio Arcipelago Itaca per la sua silloge breve “Spezzare il pane”. Nello stesso anno la sua raccolta “Expectation” in lingua inglese è stata pubblicata sul “Journal of Italian Studies”, sezione italiana, per la Northeast Modern Language Association.

Guerra, perché un poema in quattro tempi come una sinfonia?

«La divisione in quattro sezioni mi ha consentito di raggruppare i testi in modo organico ma distinto. Le sezioni “Maddalene” e “Nel conto alla rovescia”, rispettivamente di apertura e di chiusura, pur essendo formalmente simili (prose poetiche con gabbia metrica) trattano il tema con approcci diversi. Le “Maddalene” sublimano la perdita, viaggiando entro una geografia interiore, ricomponendo un’identità franta, mentre la sezione conclusiva è legata a un registro elegiaco più realista. Le due sezioni centrali, in versi, trattano il medesimo tema ma in modo contrapposto: il silenzio necessario al dolore e una parola che, comunque, deve fare il suo corso. Non credo potesse essere suddiviso in altra maniera».

Quali sono le “Maddalene” contemporanee?

«Le Maddalene sono madri, figlie, compagne, sorelle, che non ritornano, emigrano, si ammalano, muoiono, scappano e talvolta, persino, non esistono. Figure femminili che senza troppo rumore adempiono la loro chiamata, al di là della nostra comprensione. In un’inversione di ruoli Maddalena è, infine, anche chi resta a riscrivere la propria identità sotto la luce nuova della mancanza, in un esercizio quotidiano teso a “lucidare la ferita” come atto di trasformazione della stessa. La Maddalena biblica, figura così vicina a Cristo eppure paradossalmente tanto maltrattata dalla storia, si fa così filo conduttore di un viaggio articolato in venti stazioni dentro la ricostruzione di un sé in continua lotta con gli effetti della memoria».

Perché è “nella moltitudine” che la poesia si fa silenzio e luce?

«La scrittura in versi è scavo in se stessi ma anche momento di tensione verso il prossimo, la ricerca di un punto coincidente tra la propria identità e l’identità dell’altro, il tentativo di valicare i confini individuali e di ritrovarsi compartecipi di un’intuizione, finanche di una progettualità, collettiva. Un prodigioso riconoscersi tra le righe che si spera possa accadere anche al lettore dinanzi al libro. Nella moltitudine si apre con tre versi: “Dove s’intersecano i piani / curva o fondale / chi tace chi luce”. Con questo esergo intendevo dirigere l’attenzione su quel punto di contatto tra se stessi e il prossimo, ma anche sul crocevia di altri elementi come “presente e passato” e “dimensione terrena e ultraterrena”. Questo implica uno slittamento progressivo dal guscio del sé verso l’altro, un moto d’apertura dal proprio perimetro sino all’orizzonte. Il libro chiude con i versi: “Uno scavo quotidiano nei ricettacoli / l’io retrattile e sconosciuto/ per raggiungersi nella moltitudine”. È lì, nella comprensione di un io compartecipe della moltitudine che il buio, inteso come una forma di miopia che non riconosce l’insieme, può finalmente spegnersi alle spalle».

In che maniera quindi, mentre stiamo soffrendo a causa della pandemia, il tutto acquista il senso poetico della perdita «del tempo e dell’attesa»?

«Difficile parlare di senso poetico della perdita in questo momento in cui tante persone sono alle prese con tematiche legate alla sopravvivenza (sia per salute sia per precarietà economica). Lo smarrimento del baricentro esistenziale è frutto di anni, forse decenni, d’inversione dei fini con i mezzi, un periodo storico in cui siamo divenuti schiavi del nostro stesso sistema. In questa nuova fase di contenimento pandemico ci troviamo sulla punta di un iceberg, gli strati di ghiaccio sottostanti non sono però legati a questa contingenza, sono costituiti da precarietà, disuguaglianza, sfruttamento. Una fragilità divenuta sistemica. La libertà che molti oggi evocano non risiede in un bene materiale o in un momento di frivolezza negato dalle attuali normative. La libertà passa necessariamente dalla formazione del pensiero, del giudizio critico, del senso civico e di responsabilità».

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