Le foto di Filippo Venturi su Guardian e Washington Post

Cultura

FORLì. Anche in tempi immobili l’ingegno può consentire di lavorare e guadagnare con attività “non strettamente necessarie”.
Il cesenate Filippo Venturi (1980, forlivese di adozione), fotografo documentarista e artistico, tra occhio, ingegno e guizzo creativo, ha raggiunto sia le pagine del giornale inglese The Guardian, sia quelle del Washington Post.
Cliccando sulla sua macchina fotografica dalla porta di casa, Venturi ha realizzato un reportage su due mondi: il Coronavirus globale e i rider portatori di «momenti di trascurabile felicità». Poi, osservando fra le mura di casa la sua compagna e il piccolo Ulisse, due anni, ha realizzato un più intimo “diario” per il prestigioso giornale americano.
Da anni le immagini di questo fotoreporter romagnolo girano il mondo; è del 2014 il servizio sulla “Camera della rabbia” aperta a Forlì; nel 2017 il reportage “Made in Korea” (sud) e “Korean dream” (nord), ha ottenuto svariati premi. Molti sono i progetti che realizza, compresi servizi di rugby, di danza, di teatro anche per il Plautus di Sarsina. Ha partecipato a mostre internazionali e insegna.
Il suo recente successo è sbocciato il 14 marzo, in un sabato sera casalingo. Perché non ordinare una pizza a domicilio? Nell’attesa, un’idea: fotografare il fattorino e chiedergli come sta vivendo questo periodo. Così è nato “Riders at the time of Coronavirus”.
Sembra l’incipit di un film Filippo, è andata proprio così?
«Sì, in attesa della pizza ragionavo su quali potevano essere sensazioni e timori di un rider in questi giorni. Da tempo pensavo a un servizio sui fattorini. Quando è arrivato il ragazzo della pizza gli ho chiesto se potevo scattargli una foto e fargli qualche domanda. Ha accolto l’invito e sono partito. Chissà, se non avesse accettato, forse non avrei continuato».
Qual è stato il risultato delle sue richieste a domicilio?
«Che in una settimana ho ordinato di tutto; gelato, pizza, colazione, sushi… e pensare che sarei anche a dieta! Alle fine ho incontrato 33 fattorini e 30 hanno accettato di farsi ritrarre e di rispondermi».
Cosa le hanno raccontato?
«La maggior parte mi ha confidato di avere timori non eccessivi del contagio, avendo tutti preso le necessarie precauzioni, dai guanti alle mascherine, anche se spesso acquistati personalmente. Complessivamente ho notato che i più giovani apparivano più spavaldi, mentre i più adulti erano preoccupati per genitori, congiunti, figli. Timori questi anche di giovani rider padri e madri, in difficoltà economica per la venuta meno del lavoro e dei lavoretti; diversi lavoratori in nero sono privi di contributi. Una cosa positiva è stata ascoltare che in questi giorni più clienti lasciano loro la mancia, sia per evitare contatti, sia per sensibilità verso la categoria. Mi ha colpito inoltre la gratitudine nei miei confronti, per essermi interessato a loro, qualcuno mi ha pure richiamato per lasciarmi altre confidenze».
Come è arrivato al Guardian così rapidamente?
«In questi anni mi sono costruito una rete di contatti a cui propongo i miei lavori. In questo caso The Guardian mi ha risposto subito dopo aver ricevuto la bozza, chiedendomi addirittura l’esclusiva mondiale».
La fotografia le consente di poter vivere sia con reportage di grande impegno, sia restando fra le mura. Qual è il segreto?
«Solitamente ricerco un’idea originale ma non abusata. La difficoltà organizzativa come è stato per la Corea è un valore aggiunto, che viene riconosciuto. Nel caso dei rider invece c’è chi potrebbe commentare: potevo farlo anch’io. Io però l’ho fatto prima».
Come è nato subito dopo l’altro suo reportage “al chiuso”, uscito il 1° aprile sulle pagine del Post?
«È un progetto più sperimentale, evocativo, artistico. L’ho intitolato “In time of peril. A diary from the red zone” (In tempi di pericolo. Diario dalla zona rossa). Il titolo si rifà al dipinto “In time of peril” del pittore inglese Edmund Blair Leighton. Nasce come un diario intimo e personale incentrato sulla mia famiglia, in particolare su mio figlio Ulisse. Con le foto racconto quello che avviene in casa mia. Evoco, attraverso immagini di dettagli, riflessioni e preoccupazioni sul futuro di mio figlio; gioco con il colore rosso, partendo dal rosso di una torcia che utilizziamo come allarme casalingo, luce che si diffonde nella stanza e che ho esteso all’idea di “zona rossa” di questi giorni».
Ama dunque sia foto di attualità, sia immagini evocative; ma chi è per lei il fotografo?
«C’è una definizione che mi piace: il fotografo è un testimone della realtà; è uno che riporta quello che vede, ma deve essere anche affidabile, onesto, coerente, avere un’etica, non manipolare la realtà per ottenere un effetto più drammatico».
Si sente più un reporter o un artista dell’immagine?
«Privilegio la foto documentaria, ma una componente artistica si può trovare anche in questo tipo di lavori, come è stato quello sulla Corea. L’ultimo progetto del “diario” acquista però uno spessore più artistico; paradossalmente, ho avuto l’opportunità di sperimentare questo genere proprio a causa dell’isolamento».
Senza pandemia, quali altri progetti starebbe portando avanti?
«Probabilmente oggi sarei in Cina. Era tutto pronto, ero riuscito a trovare anche gli sponsor per vivere un mese on the road attraversando la Cina da Shangai ai confini col Kazakistan. Con l’intento di ripercorrere la rotta compiuta una quindicina d’anni fa da un giornalista inglese seguendo la famosa Strada nazionale 312. Verificando i cambiamenti avvenuti in questi tre lustri. Spero che il viaggio sia solo rimandato. Avrei contatti anche per un reportage a Wuhan, laddove tutto è cominciato».
Progetti meno complicati e possibili, come ad esempio il “Si fest” di Savignano?
«Conto di tornarci a settembre, sarebbe la terza volta. L’anno scorso sono stato in giuria al “Premio Pesaresi” e ho fatto letture di portfolio; quest’anno dovrei partecipare con una mia mostra frutto di un progetto europeo fra Savignano e Copenaghen».

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