Domani a Rimini padre Guidalberto Bormolini, tanatologo e docente universitario

Cultura

Guidalberto Bormolini è un ricostruttore… di anime. È stato un falegname, un liutaio, ma nel 2000 si è consacrato. Oggi è un tanatologo e docente universitario, oltre che monaco della comunità di meditazione cristiana Ricostruttori nella preghiera. Studia la morte e accompagna anche le persone, religiose o meno, nel loro momento di sofferenza più acuta. Prepara a morire. Sarà lui ad aprire domani alle 17 la due giorni di Tra, la “festa delle anime” che propone momenti di riflessione e arte dedicati al trapasso.
Padre Bormolini, lei è un tanatologo e un “accompagnatore”? Cosa fa esattamente?
«Sono due cose distinte. Il tanatologo studia da antropologo come i popoli e la contemporaneità si relazionano alla morte e al morire, insegno questo all’Università di Padova. Il nostro percorso di ricerca e insegnamento è poi orientato alla cura, ovvero a favorire percorsi per ridurre l’angoscia della morte, cosa che facciamo con la onlus Tutto è vita. Abbiamo progetti in Italia di death education, cioè educazione alla finitudine e vulnerabilità fin dall’età scolare. L’altro campo è l’accompagnamento diretto alle persone in casi di malattia grave, o per morti improvvise o traumatiche, o alla formazione per introdurre la dimensione spirituale in modo laico. Io sono un monaco e quindi posso aggiungere anche questo elemento».
Temiamo la morte, l’abbiamo rimossa. Non è naturale per l’uomo farlo?
«La civiltà ha sempre temuto la morte e ha sempre cercato di evitarne il pensiero. In un testo sacro dell’India antica alla domanda “qual è la cosa più stupefacente dell’umanità?” il saggio risponde: “l’umanità stessa, che vede gli altri morire e non pensa di dover morire”. Ma questo culturalmente nel passato non era accettato. Perciò i saggi e i filosofi lottavano perché la morte fosse contemplata durante la vita per preparasi al passaggio. Oggi invece culturalmente questo è stato rimosso. Se tu contempli la morte non puoi usare la tua vita con una logica di usa e getta, perché se consideri che la vita ha una durata, non la butti via. E ciò è incompatibile col consumismo. Il carpe diem antico non era in senso consumistico, significava che, poiché so che ho pochi anni di vita, li vivo con ciò che conta e ciò che conta sono l’amore, la cura, la relazione. Rimuoviamo la morte come si rimuovono i cadaveri e siamo diventati necrofili nei comportamenti, l’occultamento della morte genera morte. Ma qualcosa sta cambiando».
Cosa intende per comportamenti necrofili?
«Comportamenti suicidari, a rischio nel mondo giovanile: assunzione di sostanze, sport estremi o giochi spericolati per sfidare stoltamente la morte, ragazzi che ne uccidono altri perché non hanno mai visto qualcuno morire e non sanno che è irreversibile. Dietro c’è la morbosità della morte negata. Non vedere il nonno morire, non andarlo a visitare prima che muoia, non vedere la salma, non andare al cimitero, genera comportamenti mortiferi».
Dice che qualcosa sta cambiando. La pandemia ha inciso?
«No, lo dico in modo risoluto: la pandemia non ha inciso. Già prima si era mosso un movimento di coscienza e di cultura. Basti pensare alla cosa che purtroppo mi ha reso più noto, il film di Franco Battiato sulla morte, a cui ho partecipato, ha contribuito a incrinare il tabù. Poi nel tempo abbiamo altri intellettuali e artisti a parlare di morte pubblicamente in una campagna ad hoc e pian piano si è arrivati ora a parlarne di più».
Lei ha anche accompagnato Battiato alla sua morte.
«Per questo oggi una marea di gente chiede la mia assistenza personale ma devo mandare altri, e mi pesa dire dei no. Franco ha fatto un bel lavoro e sono contento della nostra amicizia personale, più che della notorietà che ne è derivata. Ma una cosa devo dirla: vorrei che la si smettesse con il laicismo esasperato. Io sono per la laicità e le iniezioni di laicità fanno bene anche alla Chiesa, il laicismo invece prevede che non si possa parlare di spiritualità. Ma non possiamo affrontare la morte senza un supporto spirituale, senza un’apertura all’invisibile non abbiamo risorse sufficienti. I popoli hanno sempre fatto così».
Ma è necessario abbracciare una fede per morire in pace?
«Chiunque può arrivare a una dimensione aperta al mistero e all’invisibile. Dacia Maraini che non è credente scrive: “La vita non è già abbastanza dura per privarci di un sogno di vita dopo la morte? La crudeltà del nulla paralizza le membra”. Ha ragione: la civiltà umana, e non c’erano le religioni, sorge intorno al culto dei defunti. Jung dice che pensare alla morte come cessazione ci pone in contrasto col fatto umano universale a cui apparteniamo. Non possiamo pensare la morte come cessazione, poi se dare o meno una colorazione religiosa a questo pensiero è una libera scelta. Io la seguo convintamente ma parlo all’essere umano in quanto tale».
Da dove si comincia un percorso di preparazione alla morte?
«L’ideale sarebbe cominciare da bambini con la death education. Aumenta la qualità della vita dei ragazzi e si limitano i comportamenti a rischio. In campo sanitario, invece, dopo una diagnosi infausta, senza aspettare la progressione della malattia, sarebbe bene avviare dei percorsi esistenziali e spirituali. Per far sì che chi deve affrontare la malattia e l’idea della morte abbia gli strumenti».
Gli strumenti quali sono?
«Colloqui individuali e percorsi di elaborazione della finitudine e vulnerabilità come risorsa, invece che come riduzione di possibilità. Ci sono poi percorsi di vario tipo: lavoro di gruppo, pratiche contemplative, meditative, di rilassamento, di respirazione, visualizzazioni».
E la meditazione è cosa diversa dalla preghiera.
«Certo, ma la meditazione è la base di ogni preghiera. La meditazione è la base universale della spiritualità. Ti fa vivere interiormente, si appoggia sulle funzioni psicofisiche per darvi un altro significato. La meditazione era una pratica ben nota in Occidente fin dall’epoca ellenistica, l’abbiamo persa».
Lei si direbbe pronto per la sua morte?
«Direi assolutamente sì. Io vedo nella morte più bellezza che altro e non la considero la fine ma l’inizio di qualcos’altro. Non ci vedo nulla di categorico, definitivo e spiacevole. Nel dolore invece sì. Poi quando sarà il momento vedremo se sarà vero».

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