Docufilm: The Beach Boys

regia di Frank Marshall e Thom Zimny
Questo docufilm, disponibile su Disney+, è dedicato, come dice il titolo, ad uno dei gruppi più importanti della storia del pop-rock, i Beach Boys. Un lavoro, bellissimo, che guarda soprattutto alla dimensione più intima della band americana, raccontandone la parabola (dalle umili origini familiari fino al successo planetario) attraverso filmati ed interviste inedite. Ha scritto Antonio Dipollina: <<Il surf, certamente. Le grandi onde sulle spiagge della California, primi anni 60. Le canzoni e i filmati: arrivavano nelle case dei ragazzi del Minnesota o di Stati centrali degli Usa e quelli scoprivano che esistevano posti così. Ma la storia dei Beach Boys è assai più complessa, significativa e pure simbolica. E il racconto del doc realizzato da Frank Marshall e Thom Zimny decolla davvero quando si incrociano i Beatles (“Perché loro vanno in tv e noi no?”) e quando Brian Wilson decide di cambiare musica e scrive un album perfetto e dentro il tempo. Lennon e McCartney lo ascoltano e corrono a scrivere “Sgt Pepper”>>. L’album si chiamava “Pet Sounds” (1966) e, per avere conferma del livello artistico al quale erano arrivati Wilson e compagni, basterebbe ascoltare una delle canzoni contenute nel disco, Let’s Go Away For Awhile. Un pezzo di cui non si distingueva la tonalità: non c’erano linee melodiche, il motivo era nascosto dentro all’arrangiamento e sin dalle prime battute non si capiva dove volesse andare a parare. L’emblema di un album nel quale era possibile rinvenire, qua e là, le tracce di una grande tradizione compositiva che si poteva far risalire a Bach e Ravel.

Tutti i brani di “Pet Sounds” esprimevano compiutamente quello che allora era lo scopo della band guidata da Wilson (geniale ma instabile mente del gruppo): rendere la musica popolare una forma d’arte. Un obiettivo raggiunto grazie alla perizia dimostrata nel gioco delle armonie vocali e nell’orchestrazione, alle soluzioni melodiche, alle sperimentazioni di studio, all’uso di strumenti insoliti per il pop-rock, ai testi essenziali, suggestivi e per nulla banali di Tony Asher e dello stesso Wilson, il quale, pur avendo a disposizione gli stessi mezzi degli altri, era in grado di scrivere canzoni che apparivano come qualcosa di unico. E questo dipendeva, tra le altre cose, dai cambi di tono, dalle modulazioni, dalle progressioni armoniche, che sembravano azzardatissime e invece non lo erano. La colonna sonora di “The Beach Boys” dimostra che, con il passare degli anni, queste canzoni non hanno perso niente del loro smalto, per tutta l’energia che contengono e per quella sorta di inquietudine nascosta che le attraversa (i Beach Boys erano ragazzi di spiaggia che spesso sorridevano senza essere contenti...).

“Definirei le nostre composizioni ombre sotto il sole: rock’n’roll e tanta tristezza. Sono cresciuto ascoltando musica e per alcuni anni ogni cosa è filata liscia. Mi piaceva Chuck Berry. E mi piaceva anche Little Richard. Poi è arrivato Phil Spector. Credo che siano cominciati lì i miei guai. Solo che non me ne resi conto. La sua musica mi ha trascinato fuori dalla realtà. Mi sono talmente staccato dalle cose terrene che, alla fine, per tornare indietro ho dovuto chiedere aiuto. E non sono mai tornato indietro completamente” (Brian Wilson).

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