Cronaca riminese: Porta Galliana ovvero “l'andron dal puteni”

Cultura

Porta Galliana: un luogo suggestivo e una storia intrigante con un’origine medievale incerta, che incuriosisce e sollecita ancora delle risposte. Ma anche un nome imbarazzante a lungo proferito sottovoce per non incorrere in equivoci o, addirittura, per non arrossire. Per secoli questa porta malatestiana ha identificato tutta l’area settentrionale del Rione Clodio adiacente al porto canale e confinante con le mura di cinta della città: un agglomerato urbano sudicio, rigurgitante di miseria e di ignoranza, ricettacolo di loschi individui. Una sorta di suburra, dove si concentrava il traffico della prostituzione. Con il favore delle tenebre meretrici, ruffiani e clienti si davano convegno nelle vicinanze di Porta Galliana e da qui, dopo la contrattazione, ci si incamminava verso i lupanari vicini.
Di bordelli più o meno nascosti ce n’erano diversi e per tutte le tasche. Della loro presenza si hanno notizie nei testi del Clementini e del Tonini. Esistevano nel Trecento quando la porta, integra nella sua architettura, permetteva l’accesso alla città e anche dopo la metà del Cinquecento quando, ormai chiusa e interrata, rappresentava solo un riferimento logistico nella topografia locale.
Fino al 1860 Porta Galliana, da molti chiamata anche l’Andron dal puteni, era sinonimo di biechi movimenti notturni; da quell’anno l’andazzo prendeva tutt’altra piega. Il 15 febbraio entrava in vigore su tutto il territorio del Regno d’Italia il Regolamento sulla prostituzione e il mestiere più antico del mondo veniva esercitato in piena regola e alla luce del sole, anche se all’interno di ambienti chiusi, nelle cosiddette “case di tolleranza”. A Rimini i primi luoghi autorizzati a svolgere il meretricio nascevano – e non poteva essere diversamente – nel settore storico della prostituzione, vale a dire nel Rione Clodio. Il viavai notturno e i patteggiamenti nei pressi dell’antico arco gotico cessavano, dato che ogni prestazione aveva il suo prezzo definito e controllato dalla legge. La via Clodia diventava la zona calda di questo vergognoso mercato e il suo nome entrava nell’immaginario collettivo della gente come emblema del piacere a tariffa, sostituendo Porta Galliana, che di quel piacere era stata per secoli il crocevia.


La Babilonia del sesso
Fin qui la storia, tirata all’osso, del luogo. Ora, ligi alla linea che abbiamo dato a questa rubrica – che spulcia “Fatti e personaggi della cronaca riminese tra Ottocento e Novecento” – entriamo nella quotidianità di quella piccola Babilonia del sesso a pagamento.
Nella Relazione sui piani regolatori di ampliamento della città, presentata nel 1906 al Municipio da una impresa edile che si impegnava di eseguire una serie di interventi urbanistici in alcune aree del centro storico, risulta che quell’anno in via Clodia si trovassero nove “case di tolleranza” (Atti del Consiglio Comunale di Rimini, a. 1906, allegato n. 65.b). Un vero e proprio rione a luci rosse, anche se allocato tra le abitazioni civili, con tutti gli inconvenienti che ne scaturivano.

A rendere l’idea dell’enorme disagio che queste “aziende” procuravano ai residenti valgono alcuni stralci di cronaca giornalistica. L’episodio che ci racconta Italia il 17 dicembre 1887 ha per protagoniste «due vestali» di via Clodia. «Giovedì sera una di esse – riferisce il giornale – si è sentita offesa da qualche parola d’una sua compagna e senza pensarci tanto ha lanciato contro di quella lo scaldino: ma fortunatamente non l’ha colpita. L’altra infuriatasi s’è avventata contro la nemica, l’ha gettata a terra e l’ha percossa finché ha voluto. La vestale dello scaldino (nel quale non c’era già il fuoco sacro) s’è levata poi da terra con ammaccature, sfregi e contusioni alla faccia e con una ferita di taglio alla mano destra». Il tutto, naturalmente, insaporito da grida disumane, che mettevano in subbuglio l’intero quartiere.
Litigate a suon di scaldino
Le litigate tra le donzelle erano all’ordine del giorno e nel periodo invernale lo scaldino diventava una vera e propria arma. Anche nei confronti dei clienti. Una di queste «scaldinate» – il termine dà il titolo a un trafiletto di Italia del 18 febbraio 1888 – si riferisce a un diverbio scaturito tra una maîtresse e un suo occasionale frequentatore, probabilmente insoddisfatto del trattamento ricevuto. Le «giovani di una casa di via Clodia» – scrive il periodico –, stanche delle petulanti lamentele del tizio, «gli scagliarono addosso gli scaldini onde erano fornite. L’uomo non perdendosi d’animo con quelle menadi che, rotti gli scaldini erano passate a ferirlo con le unghie, cacciò fuori una grossa chiave e ad una pestò una spalla, ad un’altra sconciò il naso». Il chiasso infernale della scaramuccia – stando sempre a Italia – fu sentito oltre che dagli abitanti del rione anche da una ronda di soldati transitanti per il corso Umberto I, che intervenne e portò i rissosi in commissariato.

Il putiferio non si limita solo ai “bisticci di lavoro”, anche altre divagazioni deliziano il vicinato. «Alcuni cittadini abitanti verso le estremità di via Clodia – riporta Il Momento il 15 agosto 1912 – si lamentano del frastuono prodotto dalle vetture e dalle automobili che portano i forestieri alle notturne peregrinazioni, nonché il vocio e il canto degli avvinazzati che corrono da Bacco a Venere». A difendere il sacrosanto «diritto alla dormita» interviene più volte L’Ausa. «Sarebbe cosa lodevole – brontola il settimanale cattolico il 13 febbraio 1915 – che quel pubblico notturno che transita o si trattiene lungo la via Clodia, pensasse che il quartiere è abitato da lavoratori quasi tutti impiegati e operai delle ferrovie, per i quali il sonno è d’oro, ed evitasse quindi sconci schiamazzi e inutili gare di “bel canto”».
Al «bel canto» e agli «schiamazzi» delle ore piccole si aggiungono le oscenità della luce del giorno. Tra queste ce n’è una disgustosa che i residenti proprio non sopportano ed «è la facilità con cui questi pellegrini d’amore – sostiene Il Momento il 15 agosto 1912 – calmano la loro… emozione scimmiottando i cani lungo i muri delle case». Altri trafiletti di giornale stigmatizzano queste «luride sconcezze»; ma noi, a questo punto, per rispetto dei cani, ai quali vogliamo un gran bene, e per l’eccessiva lunghezza del testo, mettiamo la parola fine all’articolo.

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