Cristiano Cavina: “Benvenuti al Tropico del fango, siamo bolle di sapone indistruttibili”

Esce domani (venerdì 18 aprile) e si intitola “Tropico del fango”. Titolo più che mai evocativo per il più latinoamericano degli scrittori italiani: Cristiano Cavina. Sempre fedele al primo comandamento della letteratura secondo Eduardo Galeano,«Ogni parola deve migliorare il silenzio», lo scrittore casolano ne spende tante e belle per ricordare i giorni e le emozioni dell’alluvione del 2023. Piogge che si sono portate via vite, case e certezze di una terra che non sarà più la stessa.
Cavina, come si vive al Tropico del fango?
«Si vive come prima. Se non fosse che ogni volta che piove si drizzano le antenne. La speranza è non rivedere quell’acquetta gialla che ti sommerge in casa e che i monti non ti franino addosso a Casola Valsenio, il mio paese. Poi c’è anche un’esperienza interiore: diciamo che l’alluvione mi ha fatto capire anche un sacco di cose che pensavi di sapere e che invece...».
Tipo?
«Beh che l’essere umano fosse mortale lo sapevo. Ma non sapevo che anche nel mio spicchio di mondo si potesse morire di alluvione. E che potessero essere a rischio i miei figli, i miei cari, i miei vicini di casa. Queste cose le vedi in televisione e pensi che succedano solo ad altri».
Il giorno più brutto?
«Difficile dirlo, perché quando sei nel fango c’è anche l’adrenalina che non ti fa rendere conto delle cose. E nonostante tutto in quei giorni c’era anche la gioia di essere ancora vivi, anche se a Casola avevamo perso tutto o quasi. Forse il momento più brutto è stato nell’autunno scorso, quando abbiamo avuto paura che ricominciasse tutto daccapo; risentire quell’odore in casa, rivivere quella fatica, andare ancora a salutare la libreria».
Come si saluta una libreria?
«L’ultima volta ho preso i libri di Galeano e gli ho dato come una pacca sulla spalla. Avrei potuto portarli via, ma lui non avrebbe gradito favoritismi, è l’autore delle disgrazie. L’ultima volta l’ho guardata e le ho detto “tanto lo so che ci rivedremo” e poi ho sfidato l’acqua, gli ho detto: “Non ce la farai a distruggerla”. E poi cominciano l’attesa e la speranza».
A proposito di attese, è vero che per quasi un giorno non ebbe notizie di sua madre?
«Sì, io ero a Faenza e lei a Casola dove non c’era wi-fi. Su Whatsapp giravano notizie di ogni tipo: compresa quella che il paese fosse franato nel fiume. Poi all’improvviso, non si sa come, torna la linea e un mio amico mi dice che mia madre stava bene. Era voluta rimanere lì per non abbandonare i suoi gatti e le sue galline. Io invece forse ero più in allarme».
Meno fatalista?
«Credo semplicemente che l’alluvione del 2 maggio ci abbia messo tutti in preallarme. Senza quella forse avremmo fatto la fine di Valencia, sarebbe stata una strage immane. E devo dire che per una volta mi hanno salvato anche i miei studi».
Cioè?
«Aver fatto l’Iti mi è servito (ride). Ho molti amici che sono rimasti chiusi fuori casa perché non sapevano che l’acqua ha un peso. E cercavano di aprire la porta con mezzo metro d’acqua in strada. Alla fine ho scoperto di aver fatto la scuola giusta».
L’alluvione del ‘23 passerà alla storia come la “Grande alluvione” o come la “Prima delle alluvioni”?
«Io non sono un climatologo. Sono solo uno che racconta storie. Però a essere onesti qui c’è una grande pentola che bolle e quel vapore trova sempre un corridoio tra gli Appennini e il mare. E in quel corridoio ci siamo noi. Del resto la Romagna è una pianura alluvionale, qualcosa vorrà dire. Detto questo l’essere umano sa incredibilmente adattarsi a tutto. E noi romagnoli ancora di più».
Secondo lei da quel fango è emerso davvero un tratto di romagnolità che sembrava estinto, oppure siamo noi che ce la raccontiamo per esorcizzare la nostra fragilità di fronte alla forza di una natura, che per anni abbiamo offeso e ora ci presenta il conto?
«Forse entrambe le cose. La Romagna esiste nella misura in cui continuiamo a raccontarci».
In che senso?
«Come popolo ci siamo letteralmente inventati. Abbiamo preso una palude e ci siamo fatti la terra, Abbiamo preso il Valzer e ci siamo fatti il Liscio. Fosse stato per i piemontesi qui ci avrebbero fatto una specie di riserva indiana. Non interessavamo a nessuno. E non lo dico per scherzare, ci sono atti parlamentari che lo dimostrano. Alla fine ci siamo inventati noi»
E come ci siamo inventati?
«Siamo nord e sud che si incontrano. Siamo chiacchieroni, ma siamo sul pezzo. Siamo aperti, ma anche timidi. E alla fine siamo dei gran lavoratori. E quello che dovevamo fare lo abbiamo fatto, senza aspettare nessuno».
Poi ci pensa un po’ e gli esce una frase che sembra arrivare dalla sua libreria. Una di quelle che sarebbero piaciute anche a Galeano: « Siamo bolle di sapone indistruttibili».